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Sulla Passeggiata dei Viaggiatori Ethan trovò alfine l’altra faccia dell’arazzo, quella ricamata, col semplice espediente di prendere un’auto a bolla, farsi portare al molo d’attracco delle più lussuose navi passeggeri e incamminarsi da lì verso il centro di Stazione Kline. Racchiuse nel cristallo e in cornici cromate c’erano vedute della notte galattica, di altre sezioni della stazione scintillanti di luci colorate, e dei piani centrali a forma di ruota che tuttora continuavano a girare per mantenere la loro ormai sorpassata gravità centrifuga. Non erano stati abbandonati — niente veniva mai scartato in quella società legata alle magre risorse dello spazio — ma alcuni erano adibiti ad usi meno importanti, e altri venivano pian piano smantellati per fornire materiale alle sezioni in crescita, come se Stazione Kline fosse un serpente che si mangiava la coda.

Entro le lunghissime paratie della Passeggiata dei Viaggiatori fioriva una gran quantità di rampicanti, di alberi in grandi vasi, di piante aerofage, di orchidee, di aiuole colme d’erbe mutanti. C’erano bizzarre fontane dove l’acqua scorreva al contrario, altre capovolte, altre ancora i cui getti di liquido spiraleggiavano intorno alle scale e alle passerelle, il tutto animato di strana vita grazie ai trucchi realizzati con la gravità artificiale. Ethan si fermò a guardare affascinato, per un intero quarto d’ora, la sfoglia d’acqua emessa da una di quelle fontane che, magicamente sospesa nell’aria, scivolava nel percorso ad otto di un Nastro di Moebius, senza inizio e senza fine. Un passo più indietro, oltre la barriera trasparente di una vetrata che dava sullo spazio, regnava la gelida notte che avrebbe potuto pietrificare in eterno tutta quella vita. Il contrasto artistico era sopraffacente, ed Ethan non era il solo turista fermo lì davanti con aria trasognata.

Lungo il bordo esterno della sezione adibita a parco c’erano caffè e ristoranti dove, calcolò Ethan ormai più aggiornato sui prezzi, se lui si fosse recato lì per i suoi pasti avrebbe dovuto accontentarsi di mangiare una volta alla settimana. E alberghi dove alloggiavano i clienti che potevano permettersi quattro pasti al giorno in quei ristoranti. E teatri, e negozi dove si vendevano sogni proibiti, e chiese che, a dar retta alle loro insegne opalescenti, potevano offrire la consolazione spirituale di ben ottantasei religioni ufficialmente riconosciute. Quella di Athos, ovviamente, non era fra esse. Mettendo la testa in una delle chiesette Ethan vide che c’era in corso la cerimonia funebre di una persona la quale doveva aver rifiutato l’immagazzinamento nel cimitero sottovuoto fuori dalla stazione in favore della cremazione, che stava avvenendo grazie a un impianto a onde corte. Ethan, con gli occhi ancora pieni del vuoto spaziale che incombeva oltre le fontane, si disse che anche lui avrebbe preferito il fuoco al ghiaccio. Dalla porta aperta di una chiesa vicina vide che si stava svolgendo un rito misterioso, officiato da un vecchio con un libro in mano, davanti a cui una femmina in un vaporoso abito bianco e un uomo in nero si tenevano per mano. I due si misero a vicenda un anello e poi uscirono a braccetto, accompagnati da una musica di bell’effetto, fra due ali di amici allegri e festosi alcuni dei quali gettavano sulla coppia manciate di chicchi di riso.

Mentre Ethan proseguiva verso il centro, i suoi pensieri si fecero più pratici. Lì c’erano le ambasciate, i consolati, le sedi di numerose ditte e gli uffici degli agenti commerciali di una quantità di pianeti che spedivano le loro merci attraverso il nodo di rotte di balzo al cui centro c’era Stazione Kline. Lì, presumibilmente, avrebbe ottenuto informazioni sulle ditte produttrici di materiale biologico che potevano soddisfare le necessità di Athos. Poi avrebbe acquistato un biglietto per il pianeta prescelto, e quindi… ma per il momento Stazione Kline era già un sovraccarico sufficiente per i suoi sensi.

Doverosamente Ethan entrò nell’atrio dell’ambasciata betana, con l’idea di cominciare a informarsi da lì. Per sua sfortuna l’interfaccia computerizzato dietro il banco della portineria era manovrato da un’impiegata femmina. Lui si ritrasse in fretta, senza rivolgerle la parola. Forse ci avrebbe riprovato più tardi, si disse, la prossima volta che sarebbe passato da quelle parti. Poi ignorò con una smorfia le targhe degli uffici commerciali delle grandi Case del Gruppo Jackson. Prima di partire, decise, avrebbe spedito una lettera al rappresentante locale di Casa Bharaputra per lamentarsi aspramente della loro disonestà.

Al confronto degli edifici davanti a cui passava, l’albergo in cui aveva preso alloggio gli sembrava ora alquanto modesto. Ethan calcolava di aver percorso oltre due chilometri, attraverso vari livelli, fino alla zona più lussuosa; ma una curiosità che ad ogni cosa nuova si rinfocolava invece di placarsi lo indusse a uscire dalla Passeggiata dei Viaggiatori, per proseguire nei quartieri interni dove abitavano i cittadini della stazione. Qui l’aspetto degli edifici passava da sgargiante a utilitaristico.

Gli odori di un piccolo locale pubblico, stretto fra una fabbrica di contenitori plastici e un’officina per la riparazione di tute pressurizzate, ricordarono a Ethan che non aveva mangiato da prima di sbarcare dalla nave. Ma guardando nell’interno vide che c’erano molte femmine sedute ai tavoli. Represse gli impulsi dello stomaco e proseguì il cammino, sentendosi sempre più affamato. Un giro a caso in quella zona lo portò, dopo esser sceso in due pozzi antigravità, in una piccola sezione poco pulita e d’aspetto modesto. Un cartello lo informò che distava poco dal molo d’ormeggio dal quale era entrato a Stazione Kline. Il suo vagabondare fu arrestato dall’odore intenso di grasso fritto che usciva dalla porta di un locale. Lui sbirciò nell’interno poco illuminato.

Una ventina di clienti, quasi tutti con le tute d’ogni colore degli operai addetti ai moli, sedevano ai tavoli o stavano appoggiati al banco di mescita in atteggiamenti rilassati. Evidentemente si trattava di una sala di riposo frequentata dai lavoratori del posto durante le pause nell’orario quotidiano, e non di una trappola per turisti. Inoltre non c’erano donne, neppure una. Il morale di Ethan si risollevò. Qui sarebbe riuscito a rilassarsi un poco, e magari a rifocillarsi lo stomaco senza spendere troppo. Forse avrebbe anche potuto attaccare utilmente discorso con qualcuno. In effetti, viste le istruzioni che gli erano state date dall’Ufficio Immigrazione Athosiano. aveva il dovere di farlo. Perché non cominciare da lì?

Ignorando una sensazione di disagio a livello subliminale — non era il momento di lasciarsi dominare dalla sua timidezza — Ethan entrò, socchiudendo gli occhi per adattarli a quella penombra. Era qualcosa di più di una sala di riposo. A giudicare dall’odore alcolico di quelle bevande, i clienti dovevano considerare conclusa la loro giornata di lavoro. Era una specie di locale di ricreazione, dunque, anche se non aveva alcuna somiglianza con un club athosiano. Ethan si chiese speranzosamente se lì non vendessero anche la birra di carciofi. Ma su una stazione spaziale era molto più probabile che avessero birra di alghe coltivate o qualcosa del genere. Soppresse un fremito di nostalgia, si umettò le labbra, e s’avviò a passi fermi verso la mezza dozzina di uomini in tuta da lavoro che stavano al banco. I cittadini locali dovevano essere abituati a vedere turisti con abiti assai più bizzarri dei suoi, in stile athosiano: maglia a maniche traforate, pantaloni gialli col risvolto e morbidi mocassini bianchi, ma per un momento lui provò il bisogno d’essere in completo bianco da medico come al Centro di Riproduzione, con la sua medaglia d’identità sul petto, abbigliamento questo che gli aveva sempre dato sicurezza e personalità nel trattare con i clienti e specialmente coi lavoratori come costoro.

— Buongiorno, signori. Come state? — li interpellò educatamente. — Io sono un delegato dell’Ufficio Immigrazione e Naturalizzazione del pianeta Athos. Se posso avere per qualche minuto il piacere della vostra attenzione, vorrei parlarvi delle possibilità di lavoro e di inserimento che il mio mondo apre agli immigrati nelle zone appena terraformate…