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Ma d’un tratto una nuova paura lo fece arrestare così all’improvviso che quasi perse l’equilibrio, e si appoggiò a una spalla della mercenaria. — Oh, Dio il Padre! Quelli non sono poliziotti? Che abbiano avuto notizia della rissa?

Due uomini stavano venendo dalla loro parte, nel poco frequentato corridoio periferico. Indossavano uniformi verde-pino con una striscia blu, e dai loro cinturoni pendeva una quantità di piccole apparecchiature fra cui anche delle armi. Ethan provò un repentino senso di colpa. — Forse dovrei confessare che ho commesso un reato. Dopotutto ho percosso un cittadino di questa stazione…

Negli occhi della comandante Quinn ci fu una luce divertita. — Non è il caso, a meno che tu non lo abbia contagiato con qualche raro virus che incubavi sotto le unghie. Questi sono del Bio-controllo. La squadra ecologica. Li troverai dappertutto, su Stazione Kline. — Fece una pausa per scambiare un cortese cenno del capo coi due uomini, che passarono oltre, e sottovoce commentò: — Sono una banda di rompiscatole, maniaci della pulizia. — Dopo averci pensato su un momento aggiunse: — Tu non attraversargli la strada, però. Hanno poteri assai ampi, possono perquisire e arrestare chiunque… se ti rifiuti di ubbidirgli, ti ritrovi dietro le sbarre in men che non si dica.

Ethan rifletté sulla cosa. — Suppongo che l’ambiente ecologico di una stazione sia molto più delicato di quello planetario.

— Il suo equilibrio è sempre appeso a un filo, fra il fuoco e il ghiaccio — annuì lei. — In certi posti c’è una dottrina politica, in altri c’è la religione. Qui noi abbiamo le misure di sicurezza contro gli — incidenti spaziali. Le epidemie e gli incendi sono i più temuti. Comunque, se tu vedessi formarsi strati di ghiaccio o di muffa da qualche parte dai subito l’allarme.

All’incrocio successivo girarono sulla Passeggiata dei Viaggiatori. Gli occhi della femmina che camminava al suo fianco erano troppo penetranti, troppo attenti e seri, per andare d’accordo con quella bocca facile al sorriso, e ciò metteva a disagio Ethan, che continuava a farsi domande preoccupanti su di lei. Gli sembrava di aver capito che fosse nativa di quella stazione, anche se sembrava aver viaggiato molto, e ciò che disse poi glielo confermò: — Spero che quel piccolo incidente non ti abbia fatto credere che tutti i kliniani siano così. Che ne diresti se ti offrissi la cena, per fare ammenda delle brutte maniere dei miei concittadini?

Era una sorta di proposta equivoca? Un complotto per averlo da solo e inerme, in balia delle donne che segretamente governavano dietro le quinte? Possibile che avesse messo gli occhi su di lui fin dall’inizio? Si scostò di un passo dalla femmina, che gli camminava accanto con l’andatura di un felino in caccia della preda.

— Io… non voglio mostrarmi ingrato — disse, con voce un po’ acuta per l’improvvisa tensione, — ma il fatto è che ho mal di stomaco. — Era la verità, dopo quei pugni. — Comunque grazie lo stesso. — Lì vicino c’era un pozzo antigravità trasparente che portava al livello superiore, quello in cui si trovava il suo albergo. — Arrivederci!

Ethan le volse le spalle, attraversò il marciapiede di corsa e balzò dentro il pozzo. Il salto non lo aiutò ad accelerare la sua velocità di ascesa, e l’ultimo barlume di dignità lo trattenne dall’agitare le braccia come un volatile. Voltandosi a osservare la Passeggiata attraverso la parete di cristallo vide che la femmina era rimasta là a guardarlo, con aria perplessa e accigliata. Ethan le rivolse un sorrisetto melenso e mosse una mano in segno di saluto mentre, con lentezza da sogno, l’antigravità lo portava al livello superiore.

Alla prima uscita si spinse fuori e poi corse via, aggirando una specie di scultura futurista larga qualche metro e poi una siepe di piante in vaso sul fondo dell’atrio. Qui si nascose, fermandosi a sbirciare fra le foglie. La femmina non apparve dall’ascensore. Quando fu sicuro che aveva rinunciato a dargli la caccia si gettò a sedere su una panchina e restò lì a riprendere fiato per qualche minuto. Finalmente in salvo.

Appena si fu riposato e orizzontato lasciò la panchina e s’avviò nel corridoio, a passi lenti. All’improvviso il suo cubicolo gli appariva pieno di attrattive. Qualcosa da mangiare ordinato al distributore automatico collegato con la dispensa dell’albergo, una doccia, e poi a letto. Basta con le esplorazioni avventurose. Il giorno dopo si sarebbe occupato solo del lavoro per cui era lì. Trovare le informazioni, scegliere il fornitore, acquistare un biglietto sulla prima nave in partenza…

Sul marciapiede a poca distanza dall’albergo, un uomo vestito con anonimi pantaloni grigi e una giacca sportiva dello stesso colore vide arrivare Ethan e gli andò incontro con un sorriso cordiale. — Buongiorno, signore. Lei è il dottor Urquhart? — disse. E mentre lui annuiva, lo sconosciuto lo prese per un polso.

Per educazione Ethan rispose al suo sorriso, ma quei modi strani lo stupirono. Poi s’irrigidì con un sussulto, e aprì la bocca in un grido d’indignazione e di protesta quando l’hypospray che l’altro aveva estratto di tasca gli fu sparato nel braccio. Il tempo di un battito di cuore e la sua bocca si rilassò, il grido gli morì in gola. L’uomo lo guidò dolcemente verso l’auto a bolla in attesa all’ingresso di un corridoio tubolare.

Ethan si sentiva i piedi leggeri come palloncini di gas. Sperò che l’uomo non lo lasciasse andare, altrimenti sarebbe volato su fino al soffitto e sarebbe rimasto là. a testa in giù, e tutto ciò che aveva in tasca sarebbe caduto sul marciapiede. La superficie a specchio dello sportello scivolò in basso, richiudendosi davanti al suo sguardo vacuo come la membrana nittitante sugli occhi di un pipistrello insonnolito.

CAPITOLO QUARTO

Ethan riprese i sensi in una camera d’albergo molto più vasta e più lussuosa della sua, o quantomeno l’aspetto non personalizzato di quell’arredamento a base di metalli argentei e dorati gli diede l’impressione che si trattasse di una camera d’albergo. La lucidità scese nella sua mente con la pesante lentezza di una colala di miele, riempiendone solo una parte. Il resto di lui continuò a fluttuare in una dolce, languida euforia. Nelle lontane profondità del suo cervello, o forse in fondo alla colonna vertebrale, qualcuno gemeva e urlava e si torceva freneticamente, come un animale in gabbia, ma non c’era alcuna possibilità che uscisse da quella trappola. La sua logica vischiosa notò con indifferenza che aveva i polsi legati ai braccioli di una scomodissima sedia di plastica, e che certi muscoli delle gambe, delle braccia e della schiena gli dolevano molto. Di questi fatti prese visione con indifferenza.

Assai più interessante fu la vista dell’uomo che uscì dalla stanza da bagno sfregandosi vigorosamente la faccia umida e arrossata con un asciugamano. Occhi grigi come pezzi di granito, corti capelli grigi. un corpo solido e avvezzo alla ginnastica, altezza media: non molto dissimile dall’individuo che aveva prelevato Ethan dal corridoio e che ora. seduto lì accanto su una sedia antigravità, sorvegliava con attenzione il prigioniero.

Il rapitore di Ethan era un tipo talmente qualsiasi che lui non aveva neppure captato la sua presenza prima di mettere a fuoco lo sguardo proprio sulla sua grigia figura. Ma Ethan era adesso fornito di una strana visione-interiore, come quella a raggi X, grazie a cui poteva vedere che le ossa di costui non contenevano midollo, bensì ghiaccio duro come la roccia e freddo quanto lo spazio fuori dalla stazione. Ethan si chiese come potesse fabbricare globuli rossi in quelle singolari condizioni biologiche. Forse nelle sue vene scorreva azoto liquido. Entrambi gli uomini avevano comunque molto sex-appeal, e lui avrebbe voluto poter alzarsi in piedi per baciarli.