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— Io… non voglio mostrarmi ingrato — disse, con voce un po’ acuta per l’improvvisa tensione, — ma il fatto è che ho mal di stomaco. — Era la verità, dopo quei pugni. — Comunque grazie lo stesso. — Lì vicino c’era un pozzo antigravità trasparente che portava al livello superiore, quello in cui si trovava il suo albergo. — Arrivederci!

Ethan le volse le spalle, attraversò il marciapiede di corsa e balzò dentro il pozzo. Il salto non lo aiutò ad accelerare la sua velocità di ascesa, e l’ultimo barlume di dignità lo trattenne dall’agitare le braccia come un volatile. Voltandosi a osservare la Passeggiata attraverso la parete di cristallo vide che la femmina era rimasta là a guardarlo, con aria perplessa e accigliata. Ethan le rivolse un sorrisetto melenso e mosse una mano in segno di saluto mentre, con lentezza da sogno, l’antigravità lo portava al livello superiore.

Alla prima uscita si spinse fuori e poi corse via, aggirando una specie di scultura futurista larga qualche metro e poi una siepe di piante in vaso sul fondo dell’atrio. Qui si nascose, fermandosi a sbirciare fra le foglie. La femmina non apparve dall’ascensore. Quando fu sicuro che aveva rinunciato a dargli la caccia si gettò a sedere su una panchina e restò lì a riprendere fiato per qualche minuto. Finalmente in salvo.

Appena si fu riposato e orizzontato lasciò la panchina e s’avviò nel corridoio, a passi lenti. All’improvviso il suo cubicolo gli appariva pieno di attrattive. Qualcosa da mangiare ordinato al distributore automatico collegato con la dispensa dell’albergo, una doccia, e poi a letto. Basta con le esplorazioni avventurose. Il giorno dopo si sarebbe occupato solo del lavoro per cui era lì. Trovare le informazioni, scegliere il fornitore, acquistare un biglietto sulla prima nave in partenza…

Sul marciapiede a poca distanza dall’albergo, un uomo vestito con anonimi pantaloni grigi e una giacca sportiva dello stesso colore vide arrivare Ethan e gli andò incontro con un sorriso cordiale. — Buongiorno, signore. Lei è il dottor Urquhart? — disse. E mentre lui annuiva, lo sconosciuto lo prese per un polso.

Per educazione Ethan rispose al suo sorriso, ma quei modi strani lo stupirono. Poi s’irrigidì con un sussulto, e aprì la bocca in un grido d’indignazione e di protesta quando l’hypospray che l’altro aveva estratto di tasca gli fu sparato nel braccio. Il tempo di un battito di cuore e la sua bocca si rilassò, il grido gli morì in gola. L’uomo lo guidò dolcemente verso l’auto a bolla in attesa all’ingresso di un corridoio tubolare.

Ethan si sentiva i piedi leggeri come palloncini di gas. Sperò che l’uomo non lo lasciasse andare, altrimenti sarebbe volato su fino al soffitto e sarebbe rimasto là. a testa in giù, e tutto ciò che aveva in tasca sarebbe caduto sul marciapiede. La superficie a specchio dello sportello scivolò in basso, richiudendosi davanti al suo sguardo vacuo come la membrana nittitante sugli occhi di un pipistrello insonnolito.

CAPITOLO QUARTO

Ethan riprese i sensi in una camera d’albergo molto più vasta e più lussuosa della sua, o quantomeno l’aspetto non personalizzato di quell’arredamento a base di metalli argentei e dorati gli diede l’impressione che si trattasse di una camera d’albergo. La lucidità scese nella sua mente con la pesante lentezza di una colala di miele, riempiendone solo una parte. Il resto di lui continuò a fluttuare in una dolce, languida euforia. Nelle lontane profondità del suo cervello, o forse in fondo alla colonna vertebrale, qualcuno gemeva e urlava e si torceva freneticamente, come un animale in gabbia, ma non c’era alcuna possibilità che uscisse da quella trappola. La sua logica vischiosa notò con indifferenza che aveva i polsi legati ai braccioli di una scomodissima sedia di plastica, e che certi muscoli delle gambe, delle braccia e della schiena gli dolevano molto. Di questi fatti prese visione con indifferenza.

Assai più interessante fu la vista dell’uomo che uscì dalla stanza da bagno sfregandosi vigorosamente la faccia umida e arrossata con un asciugamano. Occhi grigi come pezzi di granito, corti capelli grigi. un corpo solido e avvezzo alla ginnastica, altezza media: non molto dissimile dall’individuo che aveva prelevato Ethan dal corridoio e che ora. seduto lì accanto su una sedia antigravità, sorvegliava con attenzione il prigioniero.

Il rapitore di Ethan era un tipo talmente qualsiasi che lui non aveva neppure captato la sua presenza prima di mettere a fuoco lo sguardo proprio sulla sua grigia figura. Ma Ethan era adesso fornito di una strana visione-interiore, come quella a raggi X, grazie a cui poteva vedere che le ossa di costui non contenevano midollo, bensì ghiaccio duro come la roccia e freddo quanto lo spazio fuori dalla stazione. Ethan si chiese come potesse fabbricare globuli rossi in quelle singolari condizioni biologiche. Forse nelle sue vene scorreva azoto liquido. Entrambi gli uomini avevano comunque molto sex-appeal, e lui avrebbe voluto poter alzarsi in piedi per baciarli.

— È pronto a rispondere, capitano? — domandò l’uomo con l’asciugamano, accennando a lui.

— Sì, colonnello Millisor — rispose l’altro. — Gliene ho fatta una dose intera.

L’uomo uscito dal bagno grugnì e gettò l’asciugamano sul letto, accanto al contenuto delle tasche di Ethan ed ai suoi vestiti, che si trovavano tutti quanti lì. Soltanto allora lui si rese conto d’essere completamente nudo. Sul letto c’erano alcune banconote di Stazione Kline, un pettine, un fazzoletto, il piccolo proiettore della mappa, la carta di credito contenente i fondi di cui Ethan disponeva per acquistare le culture, in dollari betani… a quella vista, l’animale in gabbia nel retro del suo cervello ululò e gemette. L’individuo toccò quei pochi oggetti con una smorfia di disgusto. — Questa roba è pulita?

— Ah. Adesso sì, ma prima non tanto — disse il capitano dalle ossa fredde. — Guardi questo. — Prese il proiettore olovideo, svitò la parte posteriore e collegò un visore elettronico sopra i suoi circuiti interni. — Gli abbiamo ripulito le tasche nella zona dei moli, prima di portarlo qui. Vede questa chiazza nera? È stata causata dall’acido contenuto in una membrana di lipidi polarizzati. Quando il raggio del mio scanner l’ha attraversato, la membrana si è depolarizzata e dissolta, e l’acido ha bruciato… qualunque cosa ci fosse qui. Una microtrasmittente, direi, forse unita a un registratore audio-video. Un ottimo lavoro, mascherato nei circuiti standard del proiettore di mappe, il quale fra l’altro nascondeva il rumore elettronico della microspia. È un agente, non c’è dubbio.

— Siete riusciti a rintracciare il collegamento con la sua base?

Il capitano freddo scosse il capo. — No, purtroppo. Come le ho detto, la microtrasmittente si è autodistrutta al momento della scoperta. Però quelli in ascolto non possono più riceverlo, visto che li abbiamo accecati. Adesso loro non sanno dove si trova.

— E questi "loro" chi sono? Terrence Cee?

— Così possiamo sperare.

L’uomo dagli occhi di granito, quello che il capitano freddo aveva chiamato colonnello Millisor, grugnì ancora. Venne di fronte a Ethan e si piegò a fissarlo negli occhi. — Qual è il tuo nome?

— Ethan — rispose serenamente lui. — E il tuo?

Millisor ignorò quell’aperto invito a socializzare. — Il tuo nome completo, e il tuo grado.

Questo colpì un ricordo non sgradevole del suo passato, ed Ethan raddrizzò fieramente le spalle: — Sergente maggiore Ethan CJB-8 Urquhart. Reparto Medico del Reggimento Blu. matricola U-221-767, signore! — esclamò guardando con un sorriso eccitato il suo interlocutore, che s’era ritratto con aria sbalordita. — In congedo, signore! — aggiunse nello stesso tono, dopo un momento.

— Tu non sei un medico?

— Oh, sì — disse orgogliosamente lui. — Dove ti fa male? Fammi vedere la lingua.

— Detesto il penta-rapido — grugnì Millisor al collega. — Li fa parlare troppo.

Il capitano freddo ebbe un sorrisetto. — Sì, ma se non altro può stare sicuro che non tengono nascosto nulla.