Ethan appoggiò le dita sui fori del pagliolato su cui giaceva, umido e sporco di grasso, e guardò attraverso di esso la pavimentazione plastica del molo, venti o ventidue metri più in basso. Sembrava ondeggiare e vibrare come una cosa viva, oltre il velo di vapore che usciva da qualche valvola difettosa sotto di lui. Nella sua mente stordita tornò l’immagine della sua Aerostar De Luxe che si schiantava al suolo, all’incirca dalla stessa altezza.
Il sicario e uomo di fatica del capitano Rau si appoggiò alla ringhiera di sicurezza, guardò anch’egli in basso e sospirò con aria poco soddisfatta. — Non mi è mai piaciuto ammazzare un uomo così, voglio dire buttandolo nel vuoto e basta — disse in tono discorsivo. — Non è una cosa sicura, capisci? Lasciandoti cadere a testa in giù, due metri dovrebbero essere abbastanza per spaccarti il cranio. Però ho sentito di un tipo che è caduto per trecento metri in una cava di ghiaia ed è rimasto vivo. Dipende da dove vai a colpire, immagino. — Il suo sguardo blando perlustrò il molo, verso le uscite e la strada centrale, come se sospettasse la presenza di un guardiano notturno. — Qui tengono la gravità artificiale più leggera, per via delle merci. Sembra strano, ma gli costa di più. Penso proprio che dovrò romperti il collo prima di buttarti giù — decise Okita, in tono ragionevole. — Mi spiace farti perdere il brivido del volo, ma lo faccio per te, credimi. Non ti piacerebbe restare ad agonizzare laggiù, soltanto ferito. Giusto?
Ethan non riuscì ad infilare le dita nei fori per aggrapparsi al pagliolato, per quanto ci provasse. In un momento di follia pensò che forse avrebbe potuto comprare la pietà del suo killer con il contenuto in dollari betani della carta di credito, che gli era stata rimessa in tasca con tutto il resto prima che il muscoloso individuo lo prendesse a braccetto e lo portasse via, come due amanti in cerca di un posto buio per le loro effusioni. Come un ubriaco e il suo fedele amico che lo riportava a casa per impedirgli di perdersi nei labirinti della stazione. Ethan puzzava d’alcool, e i mugolii con cui aveva cercato d’invocare aiuto nei corridoi erano risultati incomprensibili per i numerosi passanti, che s’erano limitati a guardarli fra divertiti e sprezzanti. Adesso la sua lingua era meno rigida, ma quel posto era poco illuminato e ancor meno frequentato da gente in grado di soccorrerlo.
Un impeto di lealtà verso il Consiglio lo fece rantolare come un conato di vomito. No. Sarebbe morto senza lasciarsi derubare dei soldi dei suoi concittadini. Del resto, Okita non appariva propenso a lasciarsi corrompere. Ethan non pensava che fosse interessato all’unica altra moneta che lui poteva offrire a un uomo, visto che i normali rapporti sessuali athosiani non sembravano troppo popolari nelle regioni retrograde della galassia. Be’, se non altro quel denaro sarebbe stato prelevato dal suo cadavere e rispedito a chi l’aveva faticosamente guadagnato su Athos…
Athos. No, lui non doveva morire, non poteva permettersi di morire. Il terrificante frammento di conversazione che aveva udito da quei due individui gli era penetrato nella mente come un acido corrosivo. Distruggere i Centri di Riproduzione? Lunghe file di inermi bambini in crescita nei replicatori uterini, decine di migliaia, schiacciati fra le macerie e uccisi nei laboratori in fiamme… Ethan fremette d’orrore e ansimò, ma non riuscì a costringere i muscoli rigidi, semi paralizzati, ad ubbidire alla sua volontà. Quel piano vile e disumano… discusso con tanta calma, organizzato con tanta indifferenza… possibile che fuori dal suo mondo ci fosse tanta pazzia in agguato?
Okita mugolò fra sé, si massaggiò una spalla, controllò i dintorni, e per la terza volta guardò il suo orologio. — Va bene — diagnosticò infine. — Dovrebbe esserti penetrato nel sangue, come ha ordinato il capo. Ora sei pronto per l’autopsia. Passiamo alla lezione di volo.
L’individuo afferrò Ethan per il colletto della maglia e la cintura dei pantaloni, lo tirò in ginocchio e lo puntellò con la nuca contro la ringhiera.
— Perché mi stai facendo questo? — squittì Ethan, in un ultimo disperato tentativo di comunicare con lui. — Io sono un essere umano come te.
— In questo caso sai anche tu cosa significa avere degli ordini. Giusto? — grugnì l’altro. Ethan guardò i suoi occhi inespressivi e si rassegnò a quel destino: stava per essere giustiziato perché era colpevole d’essere innocente.
Okita lo afferrò per i capelli e gli rovesciò la testa all’indietro, premendogli il collo sul tubolare. Il fuligginoso soffitto dei moli, sotto il quale s’incrociavano altri camminamenti e scalette, si confuse negli occhi di Ethan. Il freddo metallo gli morse la carne dolorosamente.
Okita studiò la sua posizione ad occhi socchiusi e gli fece ruotare la testa di qualche grado. — Così va bene. — Tenendo bloccato con un ginocchio il corpo di Ethan contro la ringhiera, alzò la mano destra per abbatterla in un poderoso colpo di taglio su un lato del suo collo.
La passatoia si alzò di qualche centimetro con un un cigolio secco, sobbalzando sotto il peso piombato giù dall’alto. L’ansante figura femminile che vacillava in cerca dell’equilibrio sollevando a due mani lo storditore non perse tempo a gridare avvertimenti, ma si limitò a sparare. Il suo arrivo era stato silenzioso come quello di un fiocco di neve dal cielo, e l’unico rumore dopo il cigolio metallico fu quello dell’arma. La scarica d’energia che lo sfiorò, intorpidendo i suoi sensi, fece poca differenza nelle sconfortevoli condizioni di Ethan. Ma Okita, colpito in pieno, seguendo il momento d’inerzia del suo robusto braccio che si alzava cadde indietro contro l’altra ringhiera. I suoi piedi balzarono verso l’alto in semicerchio, sfiorando la faccia di Ethan.
— Oh, merda! — imprecò la comandante Quinn, e corse avanti a braccia tese. Lo storditore cadde sulla passerella, rotolò via sotto la ringhiera e volò nell’aria, rimbalzando rumorosamente su qualcosa più in basso. Il suo generoso tentativo di agguantare Okita in tempo s’infranse quando le sue mani urtarono contro le suole delle scarpe dell’individuo, e il colpo le spezzò un’unghia. Okita seguì lo storditore, a testa in giù.
Ethan si afflosciò come privo d’ossatura e giacque con la faccia sul pagliolato. Gli stivali della femmina, visti dal livello del suolo, si alzarono sulle punte quando lei si sporse sopra la ringhiera per guardare giù. — Signore Iddio, questo mi dispiace, sul serio — disse, succhiandosi il dito ferito. — Non ho mai ucciso nessuno per disgrazia, prima d’ora. Non è professionale.
— Ancora lei — gorgogliò Ethan.
La femmina ebbe un sogghigno felino. — Che coincidenza, eh?
Ethan si girò a guardare in basso. Il corpo incastrato fra un carrello e un nastro trasportatore smise di sussultare. — Io sono un medico. Forse dovremmo scendere e… uh…
— E cosa? Senti, io non ho neanche un’aspirina da dargli. Purtroppo Okita ha fatto un brutto atterraggio — disse la comandante Quinn. — Ma io non spargerei fiumi di lacrime sulla dipartita di quel gentiluomo. A parte ciò che stava facendo a te, cinque mesi fa ha collaborato all’assassinio di undici persone, sul Gruppo Jackson, per proteggere il segreto che io sto cercando di scoprire.
La sua logica alla melassa suggerì un commento a Ethan: — Se è un segreto che la gente uccide per tenere nascosto, non sarebbe più prudente evitare di scoprirlo? — E per dimenticare i dolori che aveva addosso mugolò ancora: — Comunque lei chi è, in realtà? Perché mi sta seguendo?
— Tecnicamente, io non sto affatto seguendo te. Io sto seguendo il Ghem-colonnello Luyst Millisor, il suo non meno affascinante capitano Rau e i loro due sicofanti… ah, un sicofante. Millisor è interessato a te, e di conseguenza lo sono anch’io. Q.E.D. (Quinn Erat Demostrandum).
— Interessato a me. Perché? — gemette stancamente lui.