Scivolò fuori dal piccolo locale — dopo aver memorizzato il numero della porta per esser certo di ritrovare i suoi abiti, più tardi — e svoltò a sinistra in un corridoio deserto cercando d’imitare l’andatura ferma e tranquilla di un operaio della stazione diretto al lavoro. Oltrepassò due donne in tuta azzurra che si portavano dietro un carrello antigravità, e che sembravano avere troppa fretta per far caso a lui. Ethan non ebbe il coraggio di fermarle e chiedere loro la strada. Nei suoi abiti da turista avrebbe potuto farlo, ma un operaio kliniano avrebbe dovuto sapere dov’era la stazione di polizia. La sua domanda le avrebbe insospettite ancor più del suo accento.
Si stava chiedendo se era davvero saggio sentirsi tranquillo, in base all’assunzione che se lui non sapeva dov’era non lo sapevano neanche i suoi nemici, quando un grido e un tonfo seguiti da altri rumori confusi gli fecero alzare lo sguardo. Poco più avanti, a un incrocio, due carrelli antigravità s’erano scontrati con violenza. Ci furono grida e imprecazioni e qualcuno fece un goffo tentativo di afferrare il carico, ma la pila di fragili cassette che era su uno dei veicoli si rovesciò al suolo. Nel corridoio echeggiò un ciangottio assordante; palle di piume gialle esplosero nell’aria da uno dei contenitori fracassati e saettarono qua e là, rimbalzando sulle pareti.
Una donna cominciò a gridare: — La gravità! Aumenta la gravità! — Ethan riconobbe la voce, con un sussulto. Era quella robusta sorvegliante ecologica in tuta verde e azzurra, Helda qualcosa, dell’Ufficio Riciclaggio. Stava indicando verso la parete accanto a lui, rossa in faccia per l’indignazione. — La Gravità! Svegliati, razza di idiota, non vedi che stanno scappando? — lo accusò l’indisponente femmina. Si tirò fuori dal mucchio delle cassette rovesciate e barcollò verso di lui, ansando.
Mentre Ethan lottava con la coscienza per decidere se aveva il dovere etico di rinunciare al travestimento e prestare la sua assistenza di medico — le altre tre persone coinvolte nell’incidente erano ancora sedute al suolo e si lamentavano a gran voce, benché sembrassero in grado di alzarsi — Helda lo fece spostare dalla parete, spalancò un pannello e girò un interruttore a manopola. Gli spaventatissimi uccelli canori squittirono ancor più forte quando il loro sbatter d’ali cominciò a essere inutile, mentre la gravità li risucchiava al suolo. Ethan si sentì piegare di colpo le ginocchia quando il suo peso corporeo raddoppiò, e si ritrovò ad annaspare abbracciato alla sorvegliante ecologica, entrambi impegnati a non cadere dolorosamente sul marciapiede.
— Oh, Dio, ancora tu! — sbottò Helda. — Avrei dovuto immaginarlo. Che stai facendo qui? Sei di servizio?
— No — gracidò Ethan.
— Bene. Allora puoi aiutarmi a recuperare questi dannati volatili, prima che spargano il virus della toxoplasmidosi in tutta la stazione. Muoviti!
Ethan conosceva già la toxoplasmidosi. una malattia sub-virale poco contagiosa che attaccava l’RNA, e volonterosamente tenne dietro alla femmina, sulle mani e sulle ginocchia, alla cattura dei dieci o dodici isterici uccelli ora inchiodati al suolo dal loro peso. Solo quando l’ultimo di essi fu ricacciato nella cassetta e il coperchio aggiustato con la cintura di Helda, la sorvegliante ecologica si decise a prendere atto dei gemiti delle vittime umane dello scontro, ora distese al suolo e per nulla soddisfatte dell’espediente col quale lei aveva risolto la situazione. Quando la femmina ebbe riportato le piastre gravitazionali del pavimento di quella sezione allo 0,8 G standard, Ethan si sentì d’un tratto così leggero che avrebbe potuto volare, per il sollievo.
Una delle vittime era un uomo con l’uniforme verde-pino e azzurro-cielo come quella di Helda. Aveva sulla fronte un taglio da cui gli ruscellava sangue su tutta la faccia. Ethan lo diagnosticò a colpo d’occhio vistoso ma superficiale. Un paio di minuti di pressione sui vasi sanguigni intorno alla ferita — non ad opera delle sue mani; lui aveva toccato gli uccelli — avrebbe fermato la perdita di sangue senza problemi. Gli altri due pallidi adolescenti arrivati a bordo dell’altro carrello, uno maschio e l’altra femmina — l’occhio ormai esperto di Ethan l’aveva immediatamente identificata come tale — vacillarono in piedi e guardarono con orrore la faccia del ferito, evidentemente convinti di averlo ammazzato.
Ethan, stringendo le mani a pugno per ricordare a se stesso che non doveva toccare niente, mise nella sua voce una brusca autorità da adulto e istruì il ragazzo su come improvvisare un tampone e medicare la ferita. La femmina stava piagnucolando di avere un polso fratturato ma, visto come lo muoveva, Ethan avrebbe scommesso tutti i suoi dollari betani che l’articolazione era intatta. Nel frattempo Helda, tenendo le mani a pugno come lui, era andata ad aprire con un gomito un pannello trasparente della parete e stava convocando i soccorsi. Il primo pensiero della sorvegliante ecologica fu per una squadra di decontaminazione del suo dipartimento, il secondo per la Sicurezza della Stazione, e da ultimo ma senza molta convinzione si decise a chiamare anche un meditec per i feriti.
Sollevato, Ethan rifletté che non tutto il male veniva per nuocere. Invece di dover vagare chissà per quanto tempo in cerca della Sicurezza della Stazione, questa stava per venire da lui. Avrebbe potuto affidarsi alle loro mani e lasciare che fossero le autorità a occuparsi di tutti i suoi problemi.
Ad arrivare per prima fu la squadra di decontaminazione. I portelli stagni del settore furono chiusi, e gli addetti cominciarono a ripassare le pareti, il soffitto e la pavimentazione con aspiratori sonici, sterilizzatori a raggi X e potenti disinfettanti.
— Descrivi tu l’incidente alla Sicurezza, Teki — ordinò Helda al suo assistente, mentre entrava nella vettura antigravità sigillata che la squadra di decontaminazione aveva portato con sé. — E accertati che questi giovani malandrini abbiano una bella multa salata.
I due adolescenti assunsero un’espressione costernata, non molto rassicurati dal segreto cenno di complicità con cui Teki cercò di rassicurarli.
— Allora cosa aspetti? Andiamo — disse Helda a Ethan.
— Eh? Mmh… — Grugniti e monosillabi potevano mascherare il suo accento, ma non consentivano di domandare informazioni. Ethan azzardò un: — Andiamo dove?
— In quarantena, naturalmente.
In quarantena? E per quanto? Quelle parole dovevano essergli sfuggite di bocca involontariamente, perché l’uomo della decontaminazione che gli era venuto accanto per farlo entrare nel carrello rispose, placando le sue preoccupazioni:
— Ti daremo soltanto un colpetto e una ripulita da capo a piedi. Se hai un impegno urgente potrai telefonare di là. Noi confermeremo che il ritardo non è colpa tua.
Ethan fu sul punto d’informare il tecnico che lui era uno straniero nei guai, ma la pressione della sua mano gli fece capire che le misure di quarantena avrebbero avuto comunque la precedenza sulle sue necessità personali. Si lasciò spingere dentro la vettura a bolla, e sedette di fronte alla sorvegliante ecologica dipingendosi un sorrisetto inespressivo sulla faccia.
Lo sportello fu chiuso e sigillato, isolando l’interno dai rumori del corridoio, e la vettura a bolla fluttuò via. Mentre Ethan guardava fuori attraverso l’abitacolo trasparente, seccato di aver dovuto andarsene in quel modo, sopraggiunsero due veicoli della Sicurezza con a bordo gli agenti in uniforme nera e arancione. Se anche avesse gridato loro che voleva essere interrogato, dubitava che avrebbero potuto sentirlo.
— Non toccarti la faccia — gli raccomandò Helda distrattamente, voltandosi a dare un ultimo sguardo alla scena dell’incidente. Tutto sembrava ormai sotto controllo; la squadra di decontaminazione si stava occupando dei carrelli e delle cassette di volatili, e i portelli stagni di quel settore erano stati riaperti.