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Ethan sentì che finalmente capiva quella frase di Elli Quinn sul fatto che era stanca di stare sulla difensiva. Lui non ne poteva più d’essere un giocattolo in balia di eventi messi in moto da altri. Aggredisci la realtà, prendila a calci pensò selvaggiamente, accorgendosi che il più piccolo seme di risolutezza sbocciato nel suo cuore poteva fiorire in un poderoso albero capace di resistere agli scrolloni di ogni bufera. Il sorriso che rivolse all’attraente giovanotto biondo fu tranquillo. Cee era più snello di Janos, ma gli somigliava davvero. Anche nell’incarnato pallido, e nel colore dei capelli. Ma la bocca di Cee non assumeva quella piega petulante che a volte guastava l’espressione di Janos, quand’era irritato o stanco.

— Supponiamo di mettere insieme ciò che sappiamo e di scoprirlo — propose Ethan. — Che ne pensa?

Cee alzò lo sguardo su di lui (era qualche centimetro più basso) e domandò: — Lei è davvero un agente segreto del suo governo?

— In un certo senso — annuì Ethan, riflettendo che fra i suoi doveri di rappresentante di Athos all’estero poteva benissimo esserci anche quello, — lo sono, sì.

Terrence Cee annuì. — Allora sarà un piacere, signore. — Trasse un lungo respiro. — In questo caso mi occorrerà una certa quantità di tyramina. Ho usato l’ultima che avevo per sondare Millisor, tre giorni fa.

La tyramina era un aminoacido legato a un certo numero di attività chimiche del cervello, ma Ethan non aveva mai saputo che la si potesse usare anche come droga della verità. — Le serve… a cosa? — domandò, perplesso.

— Per la mia telepatia — spiegò Cee, sottovoce.

La strada, le piante e la fontana si fecero evanescenti intorno a Ethan. che aveva l’impressione d’essere sospeso nell’aria. — Tutte le teorie sulla psionica sono state definitivamente scartate molti secoli fa, prima ancora dei viaggi spaziali — sentì dire dalla sua voce, come di lontano. — Non c’è mai stato un potere mentale chiamato telepatia.

Terrence Cee si toccò la fronte in un gesto che gli fece pensare a un paziente che descrivesse la sua emicrania.

— Adesso c’è — disse semplicemente.

Accecato dalla luce dell’alba di una nuova era, Ethan guardava negli occhi il giovane che aveva davanti. — Senta, noi siamo in mezzo alla pubblica strada — disse alla fine, con voce rauca, — in uno dei luoghi meno intimi e più monitorati che esistano nella galassia. Prima che il colonnello Millisor e quel pazzoide di Rau saltino fuori da dietro una siepe, non sarebbe meglio trovare un posto, uh, più tranquillo per fare due chiacchiere?

— Ah. Oh, sì, naturalmente, signore. Lei ha senza dubbio una base sicura. È nelle vicinanze?

— E… mmh, la sua non va bene?

Il giovanotto biondo sorrise e annuì. — Finché le autorità della stazione non indagheranno troppo sui miei documenti.

Ethan lo invitò a fargli strada con un gesto, e Cee si avviò. "Base sicura" decise Ethan dopo un po’, doveva essere un termine usato dagli agenti segreti per indicare il posto in cui si nascondevano, perché il giovanotto lo accompagnò fino a un albergo molto economico dove alloggiavano i lavoratori stranieri che si fermavano alla stazione con un permesso di soggiorno, in attesa di trovare una sistemazione migliore. Nell’atrio c’era un certo traffico di clienti, in genere operai e fattorini, o al più impiegati e tecnici le cui funzioni Ethan non poteva neppure immaginare, come ad esempio le due femmine dai vestiti coloratissimi e con facce coperte da un makeup innaturale quasi-cetagandiano, che dapprima accostarono lui e Cee con fare cordiale e poi sbuffarono insulti incomprensibili in tono sprezzante allorché loro si affrettarono ad allontanarsi.

L’alloggio di Cee era praticamente il gemello della Camera Turistica Economica di Ethan, poco pulito e così stretto che in due ci si muoveva a stento. Non senza una certa preoccupazione lui s’era chiesto se il fuggiasco cetagandano stesse leggendo la sua mente… in apparenza non era così, visto che non aveva dato segno d’intuire in anticipo le sue risposte né d’accorgersi dell’errore che faceva affidandosi a lui.

— Se ho capito bene — disse Ethan, — i suoi poteri mentali sono intermittenti.

— È così, infatti — rispose Cee. — Se la mia fuga in direzione di Athos fosse andata come avevo programmato all’inizio, non ne avrei fatto uso mai più. Suppongo che ora il vostro governo domanderà di avere i miei servizi, come pagamento per la protezione che mi date.

— Questo non saprei dirglielo. Vedremo — rispose onestamente Ethan. — Ma se lei possiede davvero un talento psi sarebbe un peccato non farne più uso. Voglio dire, potrebbe avere delle applicazioni in molti campi socialmente utili.

— Anche inutili, mi creda — mormorò aspramente Cee.

— Pensi alla medicina pediatrica… che aiuto sarebbe nella diagnosi su pazienti pre-verbali! I neonati non possono rispondere a domande tipo: dove ti fa male? Cosa ti senti? O per le vittime di colpi apoplettici, o per quelli rimasti paralizzati dopo incidenti che li hanno resi incapaci di comunicare, prigionieri dei loro corpi! Nel nome di Dio il Padre… — L’entusiasmo di Ethan si stava scaldando. — Lei potrebbe diventare un benefattore dell’umanità!

Terrence Cee sedette pesantemente sullo sportello dell’armadio, che abbassato si trasformava in una sedia. Nei suoi occhi c’era una luce di stupore e incomprensione; poi strinse le palpebre, insospettito. — È molto più facile che gli altri mi vedano come una minaccia. Nessuno di quelli che conoscono il mio segreto mi ha mai proposto di usarlo altro che nel campo dello spionaggio.

— Be’… queste persone erano spie, o militari?

— Ora che ci penso, sì. Per la maggior parte.

— Mi sembra ovvio, allora. Quella gente non pensava a sfruttare il suo talento in modo davvero pratico, ma soltanto nel ristretto campo di loro competenza.

Cee gli diede un’occhiata scrutatrice e la sua bocca si curvò in un sorrisetto. — Spero che lei abbia ragione, signore. — Il suo atteggiamento si fece meno rigido, un po’ della tensione che gli bloccava la muscolatura si sciolse, ma i suoi occhi azzurri restarono fermi e attenti su di lui. — Dottor Urquhart, lei si rende conto che io non sono un essere umano? Io sono una costruzione genetica artificiale, un composito proveniente da una dozzina di sorgenti, con l’aggiunta di un organo di senso che nessun uomo ha mai avuto, un organo incuneato nel mio cranio come un granchio in una buca. — E curvò le dita di una mano a imitare la forma di un mollusco.

— Be’, mmh… i biologi che hanno fabbricato il suo corpo, se vogliamo usare questo termine, dove hanno preso i geni? Da altri uomini, voglio supporre — domandò Ethan.

— Oh, sì. Esseri umani selezionati con cura. — Gli occhi di Cee si persero in qualche visione del passato, non molto piacevole a giudicare dalla sua smorfia ostile.

— Tuttavia — gli fece notare Ethan, — se lei risale all’indietro di, mi lasci fare il conto, quattro generazioni, ogni essere umano è un composito di sedici diverse sorgenti. Che li chiami antenati o con qualsiasi altro nome, sono sempre la stessa cosa. Il suo miscuglio di geni è stato meno casuale, tutto qui. Ora, io conosco la genetica. Se lasciamo da parte quel nuovo organo che ha menzionato, io posso garantirle che la sua mescolanza genetica per quanto peculiare non può essere anormale. Non è questo il test della sua umanità.

— E allora qual è il test dell’umanità di un individuo?

— Be’… lei ha il libero arbitrio, questo è ovvio, altrimenti non si sarebbe opposto ai suoi creatori. Ne consegue che lei non è un robot di carne, bensì un figlio di Dio il Padre, destinato a vivere finché Lui vorrà per poi rispondere a Lui dei suoi peccati — gli fece il predicozzo Ethan.

Se avesse spalancato un paio d’ali e preso il volo davanti a lui, Terrence Cee non avrebbe potuto guardarlo con uno sbalordimento maggiore. Sembrava proprio che quei fatti, così palesi e ovvii, non gli si fossero mai presentati alla mente.