— Dammela, dammela! — sussurrò Quinn, strappando il piccolo oggetto dalla mano di Ethan. — Vediamo. 672-191… oh, Dio, era 142 o 124? — Le sue dita si artigliarono sui minuscoli pulsanti della serratura a combinazione, poi esitarono frementi. — 421, e prega. — Si voltò. — È un messaggio per il tuo padrone — esclamò gettando la capsula verso lo stupito cetagandano. che automaticamente alzò la mano libera per afferrarla al volo. — Buttati giù! — gridò subito la mercenaria in un orecchio di Ethan. e gli si aggrappò addosso trascinandolo al suolo accanto a un nastro trasportatore.
Ci fu qualche secondo di silenzio perplesso mentre Setti, con il distruttore neuronico nell’altra mano, esaminava la capsula. Nell’aria davanti a lui s’era materializzata un’immagine olografica. — Un messaggio, eh? Molto bene. Alzatevi, voi due.
— Ah. dannazione — sospirò Quinn. pesando su una spalla di Ethan. — Ho preso un granchio.
Lui si tirò in piedi, lamentandosi. — Cosa diavolo credevi di…
L’improvvisa esplosione li scaraventò dall’altra parte del nastro trasportatore, facendoli rotolare storditi fra i cavi di un argano accanto alla piattaforma di carico. Per qualche momento Ethan non riuscì a sentire né a vedere niente. La sua testa echeggiava come se fosse un tamburo di bronzo, e la vista gli si era oscurata.
— Lo sapevo che non poteva essere un messaggio amichevole — mugolò Quinn soddisfatta annaspando sulla sua schiena. Si puntellò su di lui per alzarsi, cadde, si tirò ancora in piedi e sbandò contro la paratia, sbattendo le palpebre e agitando le mani davanti a sé.
Le sirene d’allarme cominciarono a ululare come bestie impazzite in tutti gli angoli del settore. Le luci gialle d’emergenza si accesero qua e là sui moli (Ethan fu sollevato nell’accorgersi che non era diventato cieco) e in distanza ci furono i tonfi dei portelli stagni che si chiudevano uno dopo l’altro.
Più vicino, meno rumoroso ma assai più allarmante c’era il sibilo, sempre più acuto, dell’aria che stava sfuggendo nello spazio dal portello del tubolare estensibile dinnanzi al punto dove si trovava Setti, danneggiato dall’esplosione. Un turbine di cristalli di ghiaccio si allargava attorno alla falla.
D’istinto Ethan si trascinò in direzione opposta, sulle mani e sulle ginocchia. La gravità artificiale aumentava e diminuiva con effetti sconvolgenti sul suo stomaco, e il vento gli scompigliava i capelli. Girandosi vide che le piastre metalliche della piattaforma di carico erano divelte per un paio di metri. Di Setti non c’era traccia da nessuna parte.
— Per Dio il Padre — mugolò, storditamente, — è proprio un’esperta nel far sparire la gente…
Spinse lo sguardo attraverso il vasto spazio deserto della strada e vide Terrence Cee che correva come un cervo inseguito dagli altri due cetagandani. Non andò lontano, perché Rau si tuffò su di lui e lo fece cadere al suolo. Millisor li raggiunse da dietro, prese la mira per sferrare un calcio alla testa del giovanotto biondo, poi sembrò riflettere che quello era un punto troppo prezioso e lo colpì invece al plesso solare. La loro preda rimase faccia al suolo, senza fiato. Millisor e Rau lo agguantarono ciascuno per un braccio e presero a trascinarlo di peso in direzione del corridoio estensibile con la luce accesa, quello che comunicava con la loro astronave.
Ethan vacillò in piedi e cominciò a correre verso di loro. Non aveva la minima idea di cos’avrebbe fatto dopo averli raggiunti, salvo che tentare di fermarli in qualche modo. Quello era l’unico imperativo. — Dio il Padre — ansimò, — dev’esserci un premio in paradiso per gli stupidi come me…
Aveva il vantaggio di un’angolazione più breve da attraversare, mentre Millisor e Rau erano ostacolati dalle contorsioni della loro preda. Ethan riuscì a balzare davanti all’entrata del tubolare estensibile con qualche metro d’anticipo e la bloccò allargando le braccia e le gambe. Era in posizione perfetta per sferrare un pugno a chi l’avesse aggredito per primo, a parte il grave handicap di doversi difendere senza armi. Aiutatemi, qualcuno pensò. — Non provateci! — disse, raucamente.
Con sua sorpresa i due si fermarono. Rau aveva perduto il suo storditore da qualche parte nella lotta con Cee. ma Millisor estrasse dalla blusa una piccola quanto micidiale pistola ad aghi e gliela puntò addosso. Ethan sapeva che i sottili proiettili ad ago si espandevano al contatto del bersaglio, squarciando come una raffica di rasoi la carne umana. L’autopsia del suo corpo sarebbe stata una faccenda molto sanguinosa…
Terrence Cee si liberò di Rau con una spinta e barcollò fra Ethan e Millisor, spalancando le braccia in un futile gesto di protezione. — No! Lui no!
— Razza d’idiota, credi che io sia obbligato a tenerti in vita solo perché le colture di quella cagna non ci sono più? Mi basta un chilo della tua carne… e sai quale parte di te congelerò? — Millisor rise, inferocito. — Proprio quella che da ragazzo mi davi così poco volentieri, stupido mutante. E adesso muori, perdio! — La mano con cui puntava l’arma oscillò. — Ma cosa… — L’uomo s’inclinò di lato quando i suoi piedi si staccarono dal pavimento metallico, e agitò le braccia per ritrovare l’equilibrio.
Ethan si aggrappò a Cee. Il suo stomaco sembrava fluttuare via indipendentemente dal resto del corpo. Si guardò attorno, sconvolto, e vide Quinn aggrappata alla paratia alquanto lontano da lì, fra il Molo C-12 e il portellone d’ingresso del settore. La mercenaria stava cercando di strappare il coperchio da un largo pannello di comandi.
Il corpo di Millisor ondeggiò a mezz’aria quando l’uomo compensò con mosse esperte l’indesiderata rotazione sul suo asse, e questo lo mise in grado di prendere ancora la mira verso Cee. La comandante Quinn, con un rauco grido, cercò di distrarlo scaraventando verso di loro il coperchio del pannello. L’oggetto roteò nell’aria davanti ai moli, ma ancor prima di aver coperto metà della distanza fu chiaro che avrebbe mancato abbondantemente Millisor. Con un’imprecazione rabbiosa l’individuo puntò la pistola ad aghi…
I moli furono attraversati da una striscia di luce bianca. Per un abbagliante momento Millisor si agitò nel raggio di plasma che l’aveva colpito, incorniciato nell’aureola di quella vampa come un martire assunto al cielo, poi i sensi di Ethan furono aggrediti dal disgustoso puzzo della carne bruciata e dei vestiti e della plastica fusa. Inorridito sbatté le palpebre, per scacciare le immagini retiniche rosse e verdi oltre le quali la forma scura e carbonizzata del Ghem-lord si contorceva in una nuvola di fumo bianco.
La pistola ad aghi era volata via, e Rau lasciò la ringhiera a cui si stava aggrappando per lanciarsi in un vano tentativo di afferrarla. Il cetagandano nuotò freneticamente nell’aria, girandosi da una parte e dall’altra alla ricerca della provenienza di quel nuovo attacco devastante. Il coperchio scagliato da Quinn rimbalzò nella paratia esterna e saettò sopra la testa di Ethan, mancandolo per pochi centimetri.
— Eccolo, lassù! — gridò Cee, che si spingeva con energia da un appiglio all’altro verso il cetagandano superstite. Il giovanotto arrivò accanto a Ethan e gli indicò le passerelle e le scalette sopra la zona interna dei moli. Una figura vestita di rosa alzò un braccio, puntando un’arma contro Rau.
— No, lui è mio! — gridò Cee. E ringhiando con furia animalesca si puntellò su Ethan, usando il suo corpo per proiettarsi in direzione di Rau. — Ti ammazzo, bastardo!
L’unico beneficio che Ethan poté vedere nell’imprudente iniziativa del telepate fu che lui venne spinto con forza in alto, verso la paratia esterna dei moli. Riuscì ad agguantare abilmente il braccio di un argano senza spaccarsi un dito a causa del momento d’inerzia del suo corpo, e mise fine a quel volo pericoloso.
— No, Terrence! — gridò dietro di lui. — Se qualcuno sta sparando ai cetagandani, dobbiamo toglierci di mezzo! — Ma la sua voce fu portata via dal vento. Vento? Si girò verso il portello danneggiato. La falla si stava allargando sempre più; da un momento all’altro avrebbe potuto verificarsi una decompressione esplosiva…