A un’occhiata più da vicino Ethan vide che la seconda banda azzurra era in realtà un semplice nastro adesivo. — Non preoccuparti — gli disse. — Puoi anche ordinare una blusa da direttore effettivo. Mi è stato assicurato che l’assenza di Helda è di carattere permanente.
— Sul serio? — Teki s’illuminò in viso. — Senta, mi dia il tempo di sbattere fuori questa robaccia… — indicò il carico del carrello, — e sarò da voi. Ce li avete due minuti per venire a bere qualcosa alla Stazione B, no?
— Soltanto due minuti — lo avvertì Quinn. — Non posso stare di più, se voglio salire in orario a bordo della nave.
Teki le accennò che capiva perfettamente. — Venite con me? — li invitò, manovrando il carrello antigravità per aggirare il bancone. L’impiegata aprì la porta sigillata del magazzino e tolse di mezzo alcune scatole di plastica per lasciarli passare.
— Io aspetto la mia roba qui, se non vi spiace — disse Quinn, ma Ethan, curioso di guardare tutto, seguì il giovanotto nell’interno. Terrence Cee era rimasto in disparte coi suoi pensieri, malinconica e solitaria figura, ed Ethan si girò a sorridergli per incoraggiarlo a restare nel gruppo.
— Allora cos’è successo con Helda? — domandò Teki a Ethan. — È vero che ha spedito su Athos una quantità di materiale organico rubato, e addirittura dei pezzi di cadavere?
Ethan annuì. — Ancora non riesco a capire cosa sperasse di ottenere. Non credo che lo sappia neanche lei. Forse ha riempito quelle scatole con altre ovaie perché temeva che avrebbero dovuto passare qualche ispezione… voglio dire, dopo aver buttato via le nostre, come ha confessato, qualunque cosa all’incirca dello stesso peso sarebbe andata bene, visto che in effetti nessuno era autorizzato ad aprire i contenitori salvo il destinatario. In questo modo ci lascia con degli interrogativi in più, che aggiungono mistero a questa assurdità.
Teki scosse il capo, come se fosse ancora incapace di crederci.
— Cos’è questa roba? — domandò Ethan, indicando il carrello fluttuante.
— Generi alimentari contaminati. Oggi, dopo le analisi, abbiamo sequestrato e distrutto l’intero carico, ma questi campioni vanno in magazzino. In caso di procedimenti legali, contestazioni, o per qualsiasi eventualità.
Entrarono in un lungo locale bianco dove neppure il riscaldamento sembrava funzionare bene, con alcune apparecchiature robotizzate e un compartimento stagno. Quella era la superficie più esterna della stazione, comprese Ethan.
Teki batté qualche rapida istruzione su una tastiera, inserì un disco di dati, mise i contenitori in una cassa di plastica ad alta resistenza etichettata con dei colori-codice, e attaccò la cassa al braccio estensibile di un robot. L’apparecchiatura si alzò dal pavimento e fluttuò nel compartimento stagno, che si chiuse e iniziò il ciclo di decompressione.
Il giovanotto premette un pulsante sulla parete, facendo scivolare di lato un pannello dietro cui c’era una finestra panoramica simile a quelle più grandi della Passeggiata dei Viaggiatori. La vista spettacolare della galassia era in parte bloccata dalle sporgenze periferiche della stazione. Era l’equivalente del cortile posteriore di un caseggiato o di un’enorme fabbrica, si disse Ethan, con la differenza che in quella zona c’era un’illuminazione intensa. Teki seguì con attenzione il robot, che uscito dal portello fluttuava nel vuoto lungo una vastissima griglia metallica di gabbie allineate. Quasi tutte le gabbie più vicine erano piene di cassoni sigillati, ma c’era anche merce in semplici sacchi di plastica e altra chiusa entro blocchi di ghiaccio informi.
— Quando Dio ebbe bisogno di un frigorifero, creò l’universo — ridacchiò Teki. — Da queste parti noi l’abbiamo ridotto a una pattumiera, però. Un giorno o l’altro dovremo mandare fuori delle squadre a distruggere tutte le porcherie rimaste qui attorno fin dall’Anno Uno, ma non è che rischiamo di restare a corto di spazio. Tuttavia, se diventerò un dirigente del Riciclaggio, dovrò pensare a una soluzione… responsabilità… finirla con questi sprechi…
Le parole del sorvegliante ecologico sfumarono via dagli orecchi di Ethan mentre la sua attenzione si spostava su un gruppo di contenitori trasparenti che fluttuavano a poca distanza, sotto la griglia. Dentro ogni contenitore sembravano esserci delle scatole rettangolari d’aspetto familiare. Aveva già visto usare piccole scatole uguali quel mattino, nel laboratorio biologico che s’era occupato della donazione di Quinn. Quante erano? Difficile contarle, difficile capirlo. Più di venti, sicuramente. Più di trenta. Da lì poteva vedere bene soltanto gli scatoloni che le contenevano; ce n’erano nove.
— Buttato via — mormorò fra sé. — Buttato… fuori?
Il robot giunse all’estremità della grata, spinse il suo carico in una delle gabbie vuote e la chiuse. L’attenzione di Teki era ancora fissa sull’apparecchiatura al lavoro, e la seguì finché fece ritorno al compartimento stagno. Ethan indietreggiò accanto a Cee, lo prese per un braccio e in silenzio gli indicò gli oggetti che fluttuavano nello spazio. Dapprima il telepate annuì distrattamente, poi guardò meglio. S’irrigidì, sbattendo le palpebre, e corse davanti alla finestra. I suoi occhi sembravano divorare la distanza. Aveva la fronte imperlata di sudore e imprecava fra i denti, a voce così bassa che Ethan riusciva a udirlo a stento. Le sue mani si aprivano e si chiudevano; le appoggiò contro la superficie trasparente.
Ethan strinse più forte il braccio di Cee. — Sono quelle? — sussurrò. — È possibile?
— Posso vedere lo stemma di Casa Bharaputra su un paio di scatole — ansimò Cee. — Ero presente quando le hanno sigillate.
— Helda deve averle portate qui lei stessa — mormorò Ethan. — Per non lasciare nessuna registrazione nei computer inserendo quella massa extra nel sistema di riciclaggio… e le ha buttate via. Intendeva proprio questo, letteralmente, quando lo ha detto. Ma la gravità della stazione non le ha lasciate allontanare molto.
— È possibile che le colture ovariche siano intatte? — domandò Cee.
— Congelate quasi allo zero assoluto… perché no?
I due si guardarono, ciascuno conscio di ciò che stava passando per la mente dell’altro.
— Dobbiamo avvertire Quinn — disse Ethan.
Le mani di Cee lo afferrarono con forza per le spalle. — No! — sibilò. — Lei ha già la coltura coi miei geni. Le ovaie di Janine… quelle appartengono soltanto a me.
— O ad Athos.
— No. — Cee stava tremando, pallido in faccia. I suoi occhi azzurri erano lame di ghiaccio. — Sono mie.
— Ognuna delle due soluzioni — disse Ethan, pesando con cura le parole, — non esclude necessariamente l’altra.
Nel teso silenzio che seguì, il volto di Cee cominciò a illuminarsi di speranza.
CAPITOLO QUINDICESIMO
Casa. Gli occhi di Ethan erano umidi mentre guardava con ansia fuori dall’oblò della navetta. Riusciva già a distinguere il reticolo dei territori coltivati, e a intravedere le piccole città, le strade e i fiumi? Cumuli di nuvole bianche erano sparsi sopra le insenature e le isole al largo della costa della Provincia Meridionale, screziando la vivida luce del mattino con chiazze d’ombra che rendevano incerto ogni suo riconoscimento. Ma sì. laggiù c’era un’isola a forma di mezzaluna, e nel punto in cui la linea costiera s’incurvava si scorgeva la treccia d’argento di un fiume.
— Terrence, guarda. L’allevamento di pesci di mio padre è in quella piccola baia sulla destra — disse a Cee, seduto accanto a lui. — Proprio sotto quell’isola ricurva come una falce.
La testa bionda di Cee si piegò verso l’oblò. — Sì, la vedo. Ethan.