Uno degli uomini della zattera si avvicinò e si accovacciò nell’ombra del grande riparo vicino: sembrava una specie di tempio, con un grande motivo ornamentale molto complesso sopra l’entrata, e gli stipiti di tronchi scolpiti in forma di balene grige in immersione. L’uomo era piccolo ed esile come gli altri, fanciullesco, ma il suo volto era forte e segnato dagli anni. Portava soltanto un perizoma, ma era ammantato di dignità. — Deve dormire — disse; e Arren lasciò Sparviero e si accostò a lui.
— Tu sei il capo di questo popolo — disse: sapeva riconoscere un principe.
— Sì — fece l’uomo, con un cenno del capo. Arren rimase ritto davanti a lui, senza muoversi. Dopo qualche istante, gli scuri occhi dell’uomo incontrarono fuggevolmente i suoi. — Anche tu sei un capo — osservò.
— Sì — ammise Arren. Gli sarebbe piaciuto sapere come mai l’uomo della zattera l’aveva capito, ma restò impassibile. — Tuttavia servo il mio signore, che è là.
Il capo del popolo delle zattere disse qualcosa che Arren non capì: erano parole mutate fino a diventare irriconoscibili, oppure nomi che lui non conosceva; quindi disse: — Perché siete venuti in Balatran?
— Siamo venuti a cercare…
Ma Arren non sapeva cosa dire, e fino a che punto confidarsi. Tutto ciò che era accaduto, e la causa della loro ricerca, sembravano lontani e confusi, nella sua mente. Infine disse: — Eravamo andati a Obehol. Ci hanno attaccati quando abbiamo cercato di sbarcare. Il mio signore è stato ferito.
— E tu?
— Non sono stato ferito — disse Arren, e il freddo autocontrollo che aveva imparato nell’infanzia, a corte, gli tornò utile. — Ma c’era… c’era una specie di follia. Uno che era con noi si è annegato. C’era una paura… — S’interruppe e tacque.
Il capo lo scrutò con gli opachi occhi neri. Poi disse: — Dunque siete venuti qui per caso.
— Sì. Siamo ancora nello Stretto Meridionale?
— Lo stretto? No. Le isole… — Il capo descrisse un arco con la sottile mano nera, non più di un quarto di cerchio, da nord a est. — Le isole sono là — disse. — Tutte le isole. — Poi, indicando il mare immerso nella sera, davanti a loro, da nord a sud, attraverso l’ovest, disse: — L’oceano.
— Da quale terra vieni, mio signore?
— Nessuna terra. Noi siamo i Figli del Mare Aperto.
Arren scrutò quel volto aguzzo, poi girò lo sguardo sulla grande zattera, con il tempio e gli idoli eretti, ognuno dei quali era ricavato da un solo tronco d’albero, grandi statue divine che erano un miscuglio di delfino, pesce, uomo e uccello marino; osservò la gente intenta al lavoro, a tessere, a scolpire, a pescare, a cucinare su piattaforme rialzate, a curare i bambini piccoli; e le altre zattere, circa settanta, sparse sull’acqua in un grande cerchio di almeno un miglio di diametro. Era una città: sottili fili di fumo salivano dalle case lontane, e le voci dei bambini risuonavano acute nel vento. Era una città, e sotto i suoi pavimenti c’era l’abisso.
— Non andate mai, a terra? — chiese il ragazzo, a voce bassa.
— Una volta l’anno. Andiamo alla Lunga Duna. Là tagliamo gli alberi e provvediamo alla manutenzione delle zattere. Ci andiamo in autunno, dopo aver seguito le balene grige verso nord. D’inverno ci separiamo: ogni zattera se ne va da sola. In primavera andiamo a Balatran e ci incontriamo. Allora si va da una zattera all’altra, e si celebrano i matrimoni, e c’è la Lunga Danza. Queste sono le Strade di Balatran; da qui, la grande corrente porta a sud. D’estate andiamo verso sud, alla deriva sulla corrente, fino a quando vediamo le Grandi, le balene grige, che si dirigono verso nord. Allora le seguiamo, e ritorniamo così alle spiagge di Emah, sulla Lunga Duna, e sostiamo per qualche tempo.
— È meraviglioso, mio signore — disse Arren. — Non avevo mai sentito parlare di un popolo come il tuo. La mia patria è molto lontana da qui. Eppure anche là, sull’isola di Enlad, danziamo la Lunga Danza alla vigilia del Solstizio d’Estate.
— Voi battete i piedi sulla terra per renderla sicura — disse in tono asciutto il capo. — Noi danziamo sul mare profondo.
Dopo qualche istante chiese: — Come si chiama, il tuo signore?
— Sparviero — rispose Arren. Il capo ripeté quelle sillabe, ma era evidente che per lui non avevano significato. E questo, più di ogni altra cosa, fece comprendere ad Arren che la sua storia era vera, che costoro vivevano sempre sul mare, sul mare aperto al di là di ogni terra e dell’odore della terra, al di là del volo degli uccelli terricoli, al di fuori della conoscenza dell’uomo.
— C’era morte, in lui — disse il capo. — Deve dormire. Tu ritorna alla zattera di Astro; ti manderò a chiamare. — Si alzò. Sebbene fosse perfettamente sicuro di sé, era chiaro che non sapeva bene cosa fosse Arren: non sapeva se doveva trattarlo come un suo pari o come un ragazzo. In quella situazione Arren preferiva essere trattato da ragazzo, e accettò il congedo: ma poi si trovò alle prese con un problema. Le zattere si erano allontanate di nuovo, e cento braccia di acqua serica le separavano.
Il capo dei Figli del Mare Aperto gli parlò di nuovo, laconicamente: — A nuoto — disse.
Arren si calò impacciato nell’acqua. La frescura era piacevole, sulla sua pelle bruciata dal sole. Compì la traversata a nuoto e si issò sull’altra zattera: trovò un gruppo di cinque o sei bambini e giovani che l’osservavano con evidente interesse. Una bambinetta disse: — Tu nuoti come un pesce preso all’amo.
— Come dovrei nuotare? — chiese Arren, un po’ mortificato ma in tono cortese: in verità, non avrebbe mai saputo mostrarsi sgarbato verso un essere umano così piccolo. La bimba sembrava una statuina di mogano lucido, fragile e squisita. — Così! — esclamò lei, e si tuffò come una foca nel bagliore e nell’ondeggiare liquido delle acque. Solo dopo molto tempo, e da una distanza inverosimile, Arren udì il suo grido acuto, e vide la testolina nera e lucida affiorare alla superficie.
— Vieni — disse un ragazzo che aveva probabilmente la stessa età di Arren, sebbene non dimostrasse più di dodici anni: aveva l’aria seria, e un tatuaggio — un granchio azzurro — gli copriva il dorso. Si tuffò, e tutti si tuffarono, perfino un bimbetto di tre anni; perciò anche Arren dovette tuffarsi, cercando di non sollevare troppi spruzzi.
— Come un’anguilla — disse il ragazzo, riemergendo accanto alla sua spalla.
— Come un delfino — disse una graziosa fanciulla dal sorriso garbato, e sparì nelle profondità dell’acqua.
— Come me! — strillò il bimbetto di tre anni, ballonzolando sull’acqua come una bottiglia.
E così quella sera, fino a quando venne buio, e per tutto il lungo giorno dorato che seguì, e nei giorni successivi, Arren nuotò e parlò e lavorò con i giovani della zattera di Astro. E tra tutti gli eventi del viaggio, da quel mattino dell’equinozio in cui lui e Sparviero avevano lasciato Roke, quello gli sembrava il più strano, in un certo senso: perché non aveva nulla in comune con tutto ciò che era accaduto prima, nel viaggio o in tutta la sua vita; e meno ancora aveva un nesso con quanto doveva ancora venire. La notte, quando si sdraiava per dormire in mezzo agli altri, sotto le stelle, pensava: è come se fossi morto; e questa è una vita nell’aldilà, così, nel sole, oltre l’orlo del mondo, tra i figli e le figlie del mare…
Prima di addormentarsi guardava lontano, a sud, cercando con lo sguardo la stella gialla e la costellazione della Runa della Fine, e vedeva sempre Gobardon e il triangolo più piccolo, e quello più grande: ma adesso sorgevano più tardi, e lui non riusciva a tenere aperti gli occhi fino a quando l’intera figura emergeva libera dall’orizzonte. Di notte e di giorno le zattere andavano alla deriva verso sud, ma il mare non cambiava mai perché ciò che muta sempre è immutabile; i temporali di maggio passavano, e di notte brillavano le stelle, e tutto il giorno splendeva il sole.