Sparviero era seduto accanto al tempio, in compagnia del capo e delle sue tre mogli. Tra le balene scolpite che fiancheggiavano l’entrata sedeva un cantore, la cui voce acuta non si era mai affievolita per tutta la notte. Cantava instancabile, battendo le mani sui tronchi per tenere il tempo.
— Di cosa canta? — chiese Arren al mago, perché non riusciva a seguire le parole, che erano tutte strascicate, con trilli e strani indugi sulle note.
— Delle balene grige e degli albatri e delle tempeste… Loro non conoscono i canti degli eroi e dei re. Non conoscono il nome di Erreth-Akbe. Prima ha cantato di Segoy, e di come creò le terre in mezzo al mare: è tutto ciò che ricordano delle tradizioni degli uomini. Ma tutti gli altri canti parlano del mare.
Arren ascoltò: udì il cantore imitare il grido fischiante del delfino, e intessere la melodia intorno a quel suono. Scrutò il profilo di Sparviero contro lo sfondo della luce delle torce, nero e saldo come una roccia; vide il liquido brillio negli occhi delle mogli del capo mentre chiacchieravano sottovoce; sentì il lungo e lento ondeggiare della zattera sul mare tranquillo, e scivolò gradualmente verso il sonno.
Si ridestò di colpo: il cantore era ammutolito. E non solo quello che sedeva accanto a loro, ma anche tutti gli altri, sulle zattere vicine e lontane. Le sottili voci si erano spente, come il pigolio di uccelli marini, e c’era silenzio.
Arren girò la testa verso oriente, aspettando l’alba. Ma c’era solo la vecchia luna, che stava sorgendo allora, aurea tra le stelle dell’estate.
Poi, guardando verso sud, vide altissima la gialla Gobardon, e più sotto le sue otto compagne, fino all’ultima: la Runa della Fine brillava nitida e ardente sopra il mare. Voltatosi verso Sparviero, vide che il volto scuro era girato verso quelle stelle.
— Perché hai smesso? — stava chiedendo il capo al cantore. — Non è l’aurora: non è neppure l’alba.
L’uomo balbettò e disse: — Non lo so.
— Continua a cantare! La Lunga Danza non è finita.
— Non so le parole — replicò l’altro, e la sua voce divenne più acuta, come il terrore. — Non so cantare. Ho dimenticato il canto.
— Allora cantane un altro!
— Non ci sono più canti. È finito — gridò il cantore, e si piegò in avanti, rannicchiandosi sul ponte; e il capo lo fissò con immenso stupore.
Le zattere ondeggiavano sotto le torce scoppiettanti, nel silenzio. Il silenzio dell’oceano racchiuse quel piccolo fremito di vita e la sua luce, e l’inghiottì. Nessuno dei danzatori si mosse.
Allora Arren ebbe la sensazione che lo splendore delle stelle si fosse affievolito, sebbene a oriente non fosse spuntato il chiarore del giorno. L’invase l’orrore, e pensò: Non ci sarà l’aurora. Non ci sarà il giorno.
Il mago si alzò. In quell’istante una luce fioca, bianca e veloce, corse lungo il suo bastone, e brillò più chiara nella runa argentea incastonata nel legno. — La danza non è finita — disse. — E neppure la notte. Arren, canta.
Arren avrebbe voluto dire: «Non posso, mio signore!». Ma invece guardò le nove stelle a sud, fece un respiro profondo, e cantò. La sua voce era bassa e roca, all’inizio, ma divenne più forte via via che cantava: ed era il canto antichissimo che parlava della Creazione di Éa, e dell’equilibrio tra la tenebra e la luce, e della formazione delle terre verdi a opera di colui che aveva pronunciato la prima parola, il Signore Più Antico, Segoy.
Prima che il canto avesse termine, il cielo era impallidito in un azzurro-grigio e vi brillavano ancora soltanto la luna e Gobardon. Le torce sibilavano nel vento dell’alba. Poi, concluso il canto, Arren tacque; i danzatori, che si erano radunati per ascoltare, ritornarono senza chiasso di zattera in zattera, mentre la luce si ravvivava a oriente.
— È un bel canto — disse il capo. Aveva un tono incerto, sebbene si sforzasse di essere impassibile. — Non sarebbe stato bene terminare la Lunga Danza prima che fosse completa. Farò frustare i cantori pigri con corde di nilgu.
— Consolati, piuttosto — disse Sparviero. Era ancora in piedi, e il suo tono era imperioso. — Nessun cantore sceglie il silenzio. Vieni con me, Arren.
Si voltò per andare al riparo, e Arren lo seguì. Ma le stranezze di quell’alba non erano ancora finite, perché proprio allora, mentre l’orlo orientale del mare diventava bianco, venne in volo dal nord un grande uccello, così in alto che le sue ali riflettevano la luce del sole non ancora spuntato sul mondo, e battevano in lampi d’oro nell’aria. Arren gridò, tendendo il braccio per indicarlo. Il mago alzò la testa, stupito. Poi il suo volto diventò ardente ed esultante, e lui gridò a gran voce «Nam hietha arw Ged arkvaissa!», che nella Lingua della Creazione significa: se cerchi Ged lo troverai qui.
E come un piombo dorato, con le ali alte e protese, immense e tonanti nell’aria, con gli artigli che avrebbero potuto afferrare un bue come se fosse un topolino, con una spira di fiamma fumante che usciva dalle lunghe narici, il drago si avventò in picchiata come un falcone sopra la zattera ondeggiante.
La gente delle zattere lanciò grida; alcuni si rannicchiarono, alcuni saltarono in mare, e altri restarono immobili a osservare, con una meraviglia che vinceva anche la paura.
Il drago restò librato sopra di loro. Le immense ali membranose avevano un’apertura di trenta braccia, forse, da un’estremità all’altra, e splendevano nella luce del nuovo sole come fumo screziato d’oro; e il suo corpo non era meno lungo, ma snello, arcuato come quello di un levriero, con artigli di lucertola e squame di serpente. Lungo la spina dorsale correva una fila di creste irregolari, simili nella forma alle spine dei rosai, ma alla gobba del dorso erano alte un braccio, e diminuivano gradatamente, così che l’ultima, alla punta della coda, non era più lunga della lama di un coltellino. Le spine erano grige, e le squame erano grigio-ferro, ma avevano un baluginio d’oro. Gli occhi erano verdi, con sottili pupille verticali.
Spinto dalla paura per la sua gente a dimenticare la paura per se stesso, il capo del popolo delle zattere uscì dal riparo con un arpione, di quelli che venivano usati nella caccia alle balene: era più lungo di lui, e aveva una grande punta uncinata d’avorio. Reggendolo sul piccolo braccio muscoloso, corse avanti per acquisire lo slancio e scagliarlo contro il ventre del drago che incombeva sopra la zattera.
Arren si scosse dallo stupore, lo vide, e si precipitò: l’afferrò per il braccio e cadde insieme a lui e all’arpione, in un mucchio. — Vuoi farlo infuriare con quel tuo stupido spillo? — ansimò. — Lascia parlare prima il Signore dei Draghi!
Il capo, col fiato mozzo, guardò istupidito Arren e il mago e il drago.
Ma non disse nulla. E poi il drago parlò.
Soltanto Ged, al quale stava parlando, poteva comprenderlo, perché i draghi usano soltanto la Vecchia Lingua, che è la loro favella. La voce era bassa e sibilante, quasi come quella di un gatto quando grida sommesso il proprio furore, ma era immane, e aveva una sua terribile musicalità.
Chiunque udiva quella voce s’immobilizzava per ascoltare.
Il mago rispose, brevemente, e il drago parlò di nuovo, restando sospeso sopra di lui, con le ali che si muovevano lievemente: sembrava, pensò Arren, una libellula librata nell’aria.
Poi il mago rispose con una sola parola: «Memeas», verrò; e alzò il bastone di legno di tasso. Le fauci del drago si aprirono, e ne uscì una voluta di fumo in un lungo arabesco. Le ali dorate sbatterono come un tuono, creando un gran vento che odorava di bruciato; e il drago volteggiò e volò immenso verso il nord.
C’era silenzio, sulle zattere, un silenzio rotto solo dal pigolante piagnucolio dei bambini e dalle voci delle donne che li consolavano. Gli uomini risalirono dal mare con espressioni vergognose; e le torce dimenticate bruciavano nei primi raggi del sole.