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Ma al di sopra di Ged e di Arren, al di sopra delle loro teste, immenso e fiammeggiante, il grande corpo del drago balzò, fremendo, e piombò con violenza sull’altro, così che la lama d’acciaio incantata penetrò in tutta la sua lunghezza nel petto corazzato del drago; ma l’uomo venne travolto dal suo peso, schiacciato e bruciato.

Rialzandosi dalla sabbia, inarcando il dorso e battendo le ali, Orm Embar vomitò sprazzi di fuoco e urlò. Tentò di volare, ma non vi riuscì. Freddo e maligno, il metallo gli era entrato nel cuore. Si accovacciò, e il sangue gli sgorgò a fiotti dalle fauci, nero e velenoso e fumante, e il fuoco si spense nelle sue narici finché divennero simili a fosse di cenere. Appoggiò la grande testa sulla sabbia.

Così morì Orm Embar, dov’era morto il suo progenitore Orm, sulle ossa di Orm sepolte nella sabbia.

Ma dove Orm aveva gettato a terra il suo nemico, giaceva qualcosa di orrendo e raggrinzito, come il corpo di un ragno enorme disseccato nella sua tela. Era stato bruciato dall’alito del drago e schiacciato dalle sue zampe artigliate. Eppure, mentre Arren lo guardava, si mosse. Si trascinò via, un po’ lontano dal drago.

La faccia si levò verso di loro. Non vi rimaneva più ombra di bellezza ma solo la rovina, la vecchiaia sopravvissuta alla vecchiaia. La bocca era incartapecorita. Le occhiaie erano vuote, e lo erano da molto tempo. Così Ged e Arren videro il volto vivo del loro nemico.

Si girò. Le braccia arse e annerite si tesero e vi si addensò una tenebra, la stessa oscurità informe che offuscava la luce del sole. Tra le braccia del Distruttore c’era come un’arcata o una porta, indistinta, senza contorni: e oltre quella non c’erano la pallida sabbia e l’oceano ma un lungo pendio di tenebra che scendeva nel buio.

Là entrò la figura sfracellata e strisciante, e quando passò nella tenebra parve improvvisamente alzarsi e muoversi in fretta: e scomparve.

—  Vieni, Lebannen — disse Ged, posando la mano destra sul braccio del ragazzo: e avanzarono nella terra arida.

LA TERRA ARIDA

Il bastone di legno di tasso, nella mano del mago, splendeva nell’opaca oscurità con un brillio argenteo. Un altro lieve movimento luminescente attirò lo sguardo di Arren: un guizzo di luce lungo la lama della spada che stringeva sguainata in pugno. Quando l’azione del drago e la sua morte avevano infranto il sortilegio che lo legava, aveva estratto la spada, là sulla spiaggia di Selidor. E lì, sebbene non fosse più di un’ombra, era un’ombra vivente, e portava l’ombra della sua spada.

Non c’era altro chiarore. Era come il crepuscolo inoltrato, sotto le nubi, alla fine di novembre, un’atmosfera cupa e opaca e fredda in cui si poteva vedere ma non chiaramente e non lontano. Arren conosceva quel luogo, le brughiere e i tratti spogli dei suoi sogni disperati; ma gli sembrava di essere più lontano, immensamente più lontano di quanto fosse mai giunto in sogno. Non riusciva a distinguere nulla: vedeva solo che lui e il suo compagno stavano sul pendio di una collina e che davanti a loro c’era un basso muro di pietre, non più alto del ginocchio di un uomo.

Ged gli teneva ancora la mano destra sul braccio. Avanzò, e Arren avanzò insieme a lui: e scavalcarono il muro di pietre.

Informe, il lungo pendio scendeva davanti a loro, digradando nell’oscurità.

Ma lassù, dove Arren aveva creduto di scorgere una pesante coltre di nubi, il cielo era nero, e c’erano le stelle. Le guardò, e gli parve che il cuore gli si rattrappisse, agghiacciato. Erano stelle che non aveva mai visto. Splendevano immote, senza palpiti. Erano le stelle che non sorgono e non tramontano, che non sono mai nascoste dalle nubi e non si affievoliscono mai all’alba. Immobili e minuscole, brillano sulla terra arida.

Ged prese a scendere l’altro versante della collina dell’essere, e passo per passo Arren andò con lui. Il terrore lo invadeva, eppure il suo cuore era così deciso e la sua volontà così ferma che la paura non lo dominava, e non ne era neppure completamente consapevole. Era solo come se qualcosa di profondo, dentro di lui, soffrisse, come un animale chiuso in una stanza e incatenato.

Gli parve che scendessero a lungo quel declivio, ma forse era solo un breve tratto: perché non c’era il trascorrere del tempo, là dove non spiravano i venti e dove le stelle non si muovevano. Poi giunsero nelle vie di una delle città che si trovano in quel luogo, e Arren vide le case con le finestre che non s’illuminavano mai, e su certe soglie stavano i morti, col volto quieto e le mani vuote.

Le piazze del mercato erano deserte. Lì non si vendeva e non si acquistava, non si guadagnava e non si spendeva. Non veniva usato nulla, e nulla veniva fabbricato. Ged e Arren percorrevano soli le vie strette, sebbene talvolta scorgessero una figura all’angolo di un’altra strada, lontana e appena distinguibile nell’oscurità. Quando vide la prima di quelle figure, Arren trasalì e tese la spada per indicarla, ma Ged scosse la testa e proseguì. Poi il ragazzo vide che era una donna e che camminava lentamente, non fuggiva davanti a loro.

Tutti coloro che videro — non molti perché, sebbene i morti siano molti, quella terra è assai grande — stavano immoti o si muovevano lentamente, senza una meta o uno scopo. Nessuno di loro aveva ferite, come le aveva avute la sembianza di Erreth-Akbe, evocata nella luce del sole sul luogo della sua morte. Non mostravano segni di infermità. Erano integri e risanati. Erano guariti dalla sofferenza e dalla vita. Non erano ripugnanti come aveva temuto Arren, e non erano spaventosi nel senso che aveva immaginato. I loro volti erano quieti, liberi dall’ira e dal desiderio, e nei loro occhi bui non c’era speranza.

Invece della paura, allora, una grande pietà sorse nel cuore di Arren; e se sotto la pietà c’era paura, non era per se stesso ma per tutti. Perché vedeva la madre e il figlio che erano morti insieme ed erano insieme nella terra tenebrosa: ma il bambino non correva e non piangeva, e la madre non l’abbracciava, non lo guardava neppure. E coloro che erano morti per amore s’incrociavano per le vie senza scambiarsi un’occhiata.

La ruota del vasaio era ferma, il telaio vuoto, la stufa fredda. Nessuna voce cantava mai.

Le strade buie, tra le case scure, continuavano e continuavano, e loro le percorrevano. Il suono dei loro passi era l’unico suono. Era freddo. Arren non aveva notato subito quel freddo, ma gli si insinuava nello spirito, che lì era anche il suo corpo. Si sentiva esausto. Dovevano aver percorso molta strada. Perché proseguire?, pensò, e i suoi passi rallentarono un poco.

All’improvviso Ged si fermò, voltandosi verso un uomo che stava all’incrocio di due strade. Era snello e alto, e Arren pensava di aver già visto il suo volto sebbene non ricordasse dove. Ged gli parlò, e nessun’altra voce aveva infranto il silenzio da quando avevano scavalcato il muro di pietre: — Thorion, amico mio, come sei giunto qui?

E tese le mani verso l’Evocatore di Roke.

Thorion non rispose a quel gesto. Stava immobile, e il suo volto era immobile: ma la luce argentea del bastone di Ged colpì a fondo i suoi occhi velati d’ombra, suscitandovi un lieve chiarore o rivelandolo. Ged prese la mano che non gli veniva tesa e disse ancora: — Cosa fai, qui? Tu non appartieni ancora a questo regno. Torna indietro!

—  Seguivo l’immortale. Ho perso la strada. — La voce dell’Evocatore era sommessa e opaca, come quella di un uomo che parla nel sonno.

—  Su, verso l’alto; verso il muro — disse Ged, indicando la direzione da cui erano venuti lui e Arren, la lunga via buia in discesa. E ci fu un tremito sul volto di Thorion, quasi una speranza fosse penetrata in lui come una spada, come una sofferenza intollerabile.

—  Non riesco a trovare la via. Mio signore, non riesco a trovare la via.

—  Forse la troverai — disse Ged, e l’abbracciò; e poi proseguirono. Thorion era rimasto fermo al crocicchio, dietro di loro.