Lentamente, Lepre si rialzò. Si spolverò le ginocchia con l’unica mano, e nascose dietro la schiena il braccio mutilato. Si guardò intorno, guardò Arren: adesso i suoi occhi vedevano. Quasi subito distolse lo sguardo e si sedette sul pagliericcio. Arren rimase in piedi, di guardia; invece Sparviero, con la semplicità di coloro che hanno vissuto l’infanzia in una casa priva di mobili, si sedette a gambe incrociate sul nudo pavimento. — Dimmi come hai perso la tua arte e il linguaggio della tua arte.
Per lunghi istanti, Lepre non gli rispose. Cominciò a battersi il braccio mutilato sulla coscia, con un movimento inquieto e convulso, e infine disse, a raffiche di parole: — Mi hanno tagliato la mano. Non posso intessere incantesimi. Mi hanno tagliato la mano. Il sangue è sgorgato, si è coagulato.
— Ma questo è avvenuto dopo che avevi perso il potere, altrimenti non avrebbero potuto farlo.
— Il potere…
— Il potere sui venti e sulle onde e sugli uomini. Tu li chiamavi con i loro nomi e loro ti ubbidivano.
— Sì, ricordo che ero vivo — replicò Lepre, con voce bassa e rauca. — E conoscevo le parole e i nomi.
— E ora sei morto?
— No. Vivo. Vivo. Ma un tempo ero un drago… Non sono morto. Talvolta dormo. Il sonno è molto simile alla morte, tutti lo sanno. I morti camminano nei sogni, tutti lo sanno. Vengono da te vivi, e ti dicono tante cose. Escono dalla morte, nei sogni. C’è un modo. E se ti spingi abbastanza lontano, c’è sempre una via per ritornare. Puoi trovarla, se sai dove cercare. E se sei disposto a pagarne il prezzo.
— Qual è il prezzo? — La voce di Sparviero fluttuò nell’aria semibuia come l’ombra di una foglia cadente.
— La vita… Cos’altro, se no? Con cosa puoi comprare la vita, se non con la vita? — Lepre si dondolava avanti e indietro sul pagliericcio, con uno strano brillio astuto negli occhi. — Vedi — disse, — loro possono tagliarmi la mano. Possono tagliarmi la testa. Non ha importanza. Io so trovare la via del ritorno. So dove cercare. Là possono andare solo gli uomini del potere.
— I maghi, vuoi dire?
— Sì. — Lepre esitò: sembrò che tentasse di pronunciare la parola ma non ci riuscisse. — Uomini del potere — ripeté. — E devono… e devono rinunciare. Pagare.
Poi ammutolì, incupendosi, come se la parola «pagare» avesse finalmente suscitato in lui un’associazione di idee e si fosse accorto che stava regalando informazioni invece di venderle. Non sarebbe stato possibile ottenere altro da lui, neppure i balbettii e gli accenni alla «strada del ritorno», che Sparviero sembrava giudicare significativi; e poco dopo, il mago si alzò. — Ebbene, una mezza risposta non è migliore di una risposta completa — disse. — E lo stesso vale per il pagamento. — Con la sveltezza di un prestigiatore, gettò un pezzo d’oro sul pagliericcio, davanti a Lepre.
Lepre lo prese. Guardò l’oro, e Sparviero, e Arren, muovendo la testa a scatti. — Aspetta — balbettò. Appena la situazione cambiava, ne perdeva il controllo; e adesso brancolava disperato, alla ricerca di quanto avrebbe voluto dire. — Aspetta. Questa notte. Ho l’hazia.
— Non ne ho bisogno.
— Per mostrarti… Per mostrarti la via. Stanotte. Ti condurrò io. Te la mostrerò. Tu puoi arrivarci, perché tu… perché tu sei… — Cercò a tentoni la parola, finché Sparviero disse: — Io sono un mago.
— Sì! Quindi possiamo… possiamo giungervi. Alla via. Quando sogno. Nel sogno. Capisci? Ti condurrò io. Verrai con me, alla… alla via.
Sparviero stava immobile, pensieroso, al centro della stanza. — Forse — replicò infine. — Se verremo, saremo qui all’imbrunire. — Poi si girò verso Arren il quale si affrettò ad aprire la porta, impaziente di andarsene.
La strada umida e ombrosa sembrava luminosa come un giardino, dopo la stanza di Lepre. S’incamminarono verso la parte più alta della città, lungo la via più breve, una ripida scalinata di pietra fra muri grondanti di edera. Arren aspirava ed espirava come un leone marino. — Uff!… Hai intenzione di ritornarci?
— Sì, se non riuscirò a ottenere le stesse informazioni da una fonte meno pericolosa. Molto probabilmente, quello ci tenderà un’imboscata.
— Ma tu non sei protetto contro i predoni e così via?
— Protetto? Cosa intendi dire? Credi che io me ne vada in giro avviluppato in incantesimi come una vecchia timorosa dei reumatismi? Non ne ho il tempo. Nascondo la faccia per tener celata la nostra ricerca: ecco tutto. Possiamo difenderci a vicenda. Ma in verità, durante questo viaggio non potremo tenerci fuori dai pericoli.
— È naturale — disse Arren, irrigidendosi, irritato, offeso nel suo orgoglio. — Non è questo, che io cerco di fare.
— Tanto meglio — replicò il mago, inflessibile, e tuttavia con un certo buonumore che placò l’irritazione di Arren. In realtà, il ragazzo era stupito della propria collera: non aveva mai pensato di parlare in quel tono all’arcimago. Ma del resto, quello era l’arcimago e non lo era, quel Falco dal naso rincagnato e dalle guance squadrate e mal rasate, e dalla voce che talora era quella di uno e talvolta di un altro: un estraneo, di nessun affidamento.
— Ha un significato, quello che lui ti ha detto? — gli chiese, perché non era entusiasta della prospettiva di ritornare in quella stanza semibuia, affacciata sul fiume maleodorante. — Tutte quelle storie, essere vivo e essere morto, e ritornare anche con la testa tagliata?
— Non so se ha un significato. Volevo parlare con un mago che avesse perso il suo potere. Lui ha detto che non l’ha perso ma l’ha dato… in cambio di qualcosa. Di cosa? Vita per vita, ha detto. Potere per potere. No, non lo comprendo; tuttavia, vale la pena di ascoltarlo.
La ferma ragionevolezza di Sparviero acuì ancora di più la vergogna di Arren. Sentiva di essere petulante e nervoso come un bambino. Lepre l’aveva affascinato; ma adesso che l’incantesimo era rotto provava nausea e disgusto, come se avesse mangiato qualcosa di ripugnante. Decise di non parlare più, fino a quando avesse riacquistato l’autocontrollo. Un attimo dopo, mise un piede in fallo sugli scalini consunti e viscidi, scivoltò, e recuperò l’equilibrio graffiandosi le mani sulle pietre. — Oh, maledetta questa sudicia città! — proruppe, rabbiosamente. E il mago replicò, in tono asciutto: — Non è necessario maledirla, credo.
C’era davvero qualcosa di strano e fuori posto, nella città di Hort e nell’aria stessa; e si poteva credere veramente che fosse oppressa da una maledizione: eppure non si trattava di una presenza ma piuttosto di un’assenza, di un indebolimento di tutte le qualità, come un morbo che contagiasse ben presto lo spirito di ogni visitatore. Perfino il calore del sole pomeridiano era malsano: un caldo troppo pesante per il mese di marzo. Le piazze e le strade brulicavano di attività e di movimento, ma non c’erano né ordine né prosperità. Le merci erano scadenti, i prezzi alti, e i mercati erano malsicuri per i venditori e gli acquirenti, pieni di ladri e di bande vaganti. Non c’erano molte donne per le vie, e quelle poche uscivano quasi sempre in gruppi. Era una città senza legge, senza governo. Parlando con la gente, Arren e Sparviero scoprirono infatti che a Città Hort non c’era più un consiglio, un sindaco o un signore. Alcuni di coloro che un tempo governavano la città erano morti, e altri si erano dimessi, e altri ancora erano stati assassinati; vari capi signoreggiavano sui diversi quartieri, le guardie dominavano il porto e s’impinguavano le tasche, e via discorrendo.
La città non aveva più un centro. La gente, nonostante la sua attività irrequieta, sembrava priva di scopo. Gli artigiani, a quanto pareva, non avevano voglia di lavorare bene; perfino i ladri rubavano soltanto perché era l’unica cosa che sapevano fare. C’era tutta la chiassosa vivacità di una grande città portuale, in superficie, ma intorno stavano seduti immobili i mangiatori di hazia. E sotto la superficie, le cose non sembravano interamente reali: neppure i volti, i suoni, gli odori. Sbiadivano, di tanto in tanto, in quel lungo pomeriggio caldo, mentre Sparviero e Arren camminavano per le vie e parlavano con questo e con quello. Si dissolvevano rapidamente. I tendoni a strisce, i ciottoli sporchi, i muri colorati e tutta la vividezza dell’esistenza sparivano, lasciando la città mutata in una città di sogno, svuotata e squallida nella luce nebbiosa del sole.