— No, adesso mi sento molto meglio. — Una febbre leggera aveva preso il posto del freddo, e adesso Arren si sentiva veramente bene; fisicamente era illanguidito, ma la sua mente sfrecciava rapida da un pensiero all’altro. — Quando ti sei svegliato? Che fine ha fatto Lepre?
— Mi sono svegliato allo spuntar del giorno: e fortuna che ho la testa dura: dietro l’orecchio ho un bernoccolo e un taglio come un cocomero spaccato. Ho lasciato Lepre immerso nel sonno della droga.
— Non ho fatto la guardia come dovevo…
— Ma non perché ti eri addormentato.
— No. — Arren esitò. — Era… ero…
— Mi avevi preceduto: ti ho visto — disse stranamente Sparviero. — E così quelli sono entrati e ci hanno colpiti alla testa come agnelli, hanno preso l’oro, gli abiti buoni, lo schiavo vendibile, e se ne sono andati. È te che volevano, ragazzo. Avresti spuntato il prezzo di una fattoria, al Mercato di Amrun.
— Non mi hanno dato una botta abbastanza forte. Mi sono svegliato. Li ho costretti a inseguirmi. Ho sparpagliato il loro bottino per la strada, prima che mi bloccassero. — Gli occhi di Arren scintillavano.
— Ti sei svegliato mentre c’erano loro… e sei fuggito? Perché?
— Per allontanarli da te. — Lo stupore del tono di Sparviero colpì Arren nel suo orgoglio; aggiunse, risentito: — Pensavo che cercassero te. Pensavo che intendessero ucciderti. Ho afferrato la loro borsa, perché m’inseguissero, e sono fuggito. E loro mi hanno seguito.
— Sì… era logico che lo facessero. — Sparviero non disse altro: non una parola di elogio, sebbene rimanesse seduto a riflettere per qualche istante. — Non hai pensato che io potevo essere già morto?
— No.
— Prima uccidi e poi ruba: è il sistema più sicuro.
— Non ci avevo pensato. Ho pensato soltanto ad allontanarli da te.
— Perché?
— Perché tu avresti potuto difenderci entrambi, tirarci fuori dai guai, se avessi avuto il tempo di svegliarti. O almeno, tirar fuori dai guai te stesso. Io ero di guardia, e non ho fatto il mio dovere. Così, ho cercato di rimediare. Eri tu, quello che dovevo proteggere. Tu sei l’unico che conta. Ti accompagno per difenderti, o per servirti secondo le tue necessità: sei tu a guidarci, sei tu quello che può giungere dove dobbiamo andare e raddrizzare ciò che non va.
— Davvero? — ribatté il mago. — Anch’io la pensavo così, fino all’altra notte. Pensavo di avere un seguace, ma invece ho seguito te. — Il suo tono era sereno, forse un po’ ironico. Arren non seppe ribattere. Era completamente confuso. Aveva pensato che difficilmente la sua colpa di essersi abbandonato al sonno o alla trance mentre stava di guardia sarebbe stata espiata dalla prodezza con cui aveva allontanato i predoni da Sparviero; ma adesso sembrava che il suo fosse stato un gesto sciocco, mentre andare in trance al momento sbagliato era stato straordinariamente opportuno.
— Mi dispiace, mio signore — disse infine, con le labbra irrigidite, dominando a stento l’impulso di piangere. — Ti ho deluso. E tu mi hai salvato la vita…
— E tu, forse, hai salvato la vita a me — replicò il mago, bruscamente. — Chissà? Forse mi avrebbero tagliato la gola, dopo aver finito. Non parliamone più, Arren. Sono lieto di averti con me.
Poi andò alla cassa, accese la piccola stufa a carbone dolce, e cominciò a darsi da fare. Arren rimase sdraiato a guardare le stelle; e le sue emozioni si placarono, la sua mente smise di turbinare. E allora comprese che quanto aveva fatto e non aveva fatto non sarebbe stato giudicato da Sparviero. L’aveva fatto: Sparviero l’accettava come realtà. «Io non punisco» aveva detto a Egre, con voce fredda. E non ricompensava. Ma era venuto in tutta fretta a cercarlo attraverso il mare, scatenando il potere della sua magia per salvarlo; e l’avrebbe fatto ancora. Meritava tutto l’amore che Arren provava per lui, e tutta la fiducia. Perché si era fidato di Arren. Ciò che Arren faceva, era giusto.
Poi l’arcimago ritornò e gli porse una ciotola di vino fumante. — Forse questo ti farà dormire. Sta’ attento, se no ti scotti la lingua.
— Da dove viene? A bordo non ho mai visto un solo otre di vino…
— Sulla Vistacuta c’è molto più di quanto si vede — disse Sparviero, sedendosi di nuovo accanto a lui; e Arren lo sentì ridere, brevemente e quasi silenziosamente, nell’oscurità.
Si levò a sedere, per bere il vino. Era delizioso, e ristorava il corpo e lo spirito. Arren chiese: — Adesso dove andiamo?
— Verso occidente.
— Dove sei andato, con Lepre?
— Nella tenebra. Io non l’ho mai perso, ma lui era perduto. Vagava ai confini esterni, nell’interminabile deserto del delirio e dell’incubo. La sua anima pigolava come un uccello in quei luoghi squallidi, come un gabbiano che grida lontano dal mare. Lui non è una guida: è sempre stato perduto. Nonostante la sua arte magica, non ha mai visto la via davanti a sé: vedeva solo se stesso.
Arren non comprendeva completamente quelle parole, e adesso non voleva neanche capire. Era stato attirato per un breve tratto in quella «tenebra» di cui parlavano i maghi, e non voleva ricordarla: non aveva nulla in comune con lui. E non voleva dormire, per non rivederla in sogno, per non scorgere quella figura cupa, quell’ombra che protendeva una perla e sussurrava «Vieni».
— Mio signore — cominciò, mentre la sua mente virava rapida verso un altro pensiero, — perché…
— Dormi! — disse Sparviero, con blanda esasperazione.
— Non posso dormire, mio signore. Mi sto chiedendo perché non hai liberato gli altri schiavi.
— L’ho fatto. Non ho lasciato nessuno incatenato, a bordo di quella nave.
— Ma gli uomini di Egre erano armati. Se avessi incatenato loro…
— Sì, se li avessi incatenati? Erano soltanto sei. I rematori erano schiavi alla catena, come te. A quest’ora Egre e i suoi uomini possono essere morti, o incatenati dagli altri per finire venduti come schiavi: ma li ho lasciati liberi di combattere o di mercanteggiare. Io non faccio schiavi.
— Ma sapevi che erano uomini malvagi…
— E perciò dovevo comportarmi come loro? Lasciare che le loro azioni condizionassero le mie? Non sarò io a scegliere per loro, e non permetterò che scelgano per me!
Arren rimase in silenzio, riflettendo su quelle parole. Dopo un po’, il mago disse, con voce lieve: — Vedi, Arren: contrariamente a quanto pensano i giovani, un’azione non è un sasso che si raccoglie e si scaglia e che colpisce il bersaglio o lo manca e tutto finisce lì. Quando quel sasso viene sollevato, la terra è più leggera; la mano che lo stringe è più pesante. Quando viene lanciato, i circuiti delle stelle reagiscono, e dove colpisce o cade, l’universo cambia. Da ogni azione dipende l’equilibrio del tutto. I venti e i mari, le potenze dell’acqua e della terra e della luce, tutto ciò che loro fanno e tutto ciò che fanno le bestie e le piante, è ben fatto, e fatto giustamente. Tutti agiscono nell’ambito dell’Equilibrio. Dall’uragano, dall’immersione di una grande balena, fino alla caduta di una foglia secca e al volo di un moscerino, tutto ciò che viene fatto viene fatto nell’ambito dell’equilibrio del tutto. Ma noi, poiché abbiamo potere sul mondo e l’uno sull’altro, dobbiamo imparare a fare ciò che la foglia e la balena e il vento fanno per loro natura. Dobbiamo imparare a mantenere l’equilibrio. Poiché abbiamo l’intelligenza, non dobbiamo agire nell’ignoranza. Poiché possiamo scegliere, non possiamo agire senza responsabilità. Chi sono io, anche se ho il potere di farlo, per punire e ricompensare, giocando col destino degli uomini?