— Ma allora — disse il ragazzo, guardando le stelle con la fronte aggrondata, — l’equilibrio si conserva non facendo nulla? Senza dubbio, un uomo deve agire, anche se non conosce tutte le conseguenze del suo atto, se si deve fare qualcosa.
— Non temere. Per gli uomini, agire è assai più facile che astenersi dall’azione. Continueremo a fare il bene e a fare il male… Ma se ci fosse di nuovo un re, al di sopra di tutti noi, e se chiedesse il consiglio di un mago come avveniva nell’antichità, e io fossi quel mago, gli direi: mio signore, non fare mai qualcosa perché è giusto o lodevole o generoso farlo; non fare qualcosa perché ti sembra bene farlo; fa’ solo ciò che devi fare, e che non puoi fare in altro modo.
Il tono di voce indusse Arren a voltarsi a scrutarlo, mentre parlava. Gli parve che lo splendore della luce s’irradiasse di nuovo da quel volto: vide il naso aquilino, la guancia sfregiata, gli occhi scuri e ardenti. E lo guardò con amore ma anche con paura, pensando: è troppo al di sopra di me. Eppure, mentre lo guardava, si accorgeva finalmente che sulle linee e sui piani del volto di quell’uomo non c’era la luce incantata, non c’era il freddo splendore della magia, ma c’era la luce stessa: il mattino, la normale luce del giorno. C’era un potere più grande di quello del mago. E gli anni non erano stati generosi con Sparviero più che con qualunque altro uomo. Il suo volto recava i segni dell’età, e aveva l’aria stanca, via via che la luce si rafforzava. Arren sbadigliò…
E così, mentre guardava e rifletteva, finalmente si addormentò. Ma Sparviero restò seduto accanto a lui, a guardare l’alba che spuntava e il sole che sorgeva, come se scrutasse un tesoro alla ricerca di qualche oggetto smarrito, una gemma difettosa, un bambino malato.
SOGNI SUL MARE
A mattino inoltrato, Sparviero tolse dalla vela il vento magico e lasciò che la barca procedesse spinta dal vento del mondo, che spirava dolce da sudovest. Lontano, sulla destra, le colline della distante Wathort slittavano via e rimanevano indietro, diventando azzurre e minuscole, come onde nebbiose al di sopra delle onde.
Arren si svegliò. Il mare si crogiolava nel caldo meriggio dorato, acqua infinita sotto una luce infinita. A poppa, Sparviero sedeva nudo: portava solo un perizoma e una specie di turbante fatto con tela da vele. Canterellava a mezza voce, accarezzando la fiancata come se fosse un tamburo, in un ritmo lieve e monotono. Il suo canto non era un incantesimo magico, né narrava le gesta degli eroi o dei re, ma una nenia di parole prive di senso, come potrebbe cantilenare un ragazzo mentre bada alle capre in un lungo pomeriggio d’estate, da solo sulle alte colline di Gont.
Dalla superficie del mare balzò un pesce, che planò nell’aria per molte braccia tendendo le pinne rigide e scintillanti, simili ad ali di libellula.
— Siamo nello Stretto Meridionale — disse Sparviero, quando ebbe concluso il canto. — Una parte molto strana del mondo, dove i pesci volano e i delfini cantano, si dice. Ma l’acqua è tiepida, per nuotare, e io ho un’intesa con gli squali. Fa’ il bagno, per toglierti da dosso il contatto dei mercanti di schiavi.
Arren aveva tutti i muscoli intormentiti, e avrebbe preferito non muoversi. Inoltre non era un nuotatore esperto, perché i mari di Enlad sono turbolenti e bisogna lottare con le acque anziché nuotarvi, e ci si sfinisce presto. Quel mare più azzurro era freddo, al primo momento, ma poi diventò delizioso. L’indolenzimento l’abbandonò. Arren sguazzò accanto alla fiancata della Vistacuta come un giovane serpente di mare. Gli spruzzi zampillavano come fontane. Sparviero lo raggiunse, nuotando a bracciate più decise. Docile e protettiva, la Vistacuta li attendeva, con la sua ala bianca sull’acqua lucente. Un pesce balzò in aria dal mare: Arren l’inseguì; il pesce si tuffò e balzò di nuovo fuori, nuotando nell’aria, volando nel mare, inseguendo lui.
Agile e dorato, il ragazzo giocò e si crogiolò nell’acqua e nella luce fino a quando il sole toccò il mare. E, scuro e magro, con l’economia di gesti e la sobria forza dell’età, l’uomo nuotò, e tenne in rotta la barca, e montò un tendone di tela da vele, e guardò con imparziale tenerezza il ragazzo che nuotava e il pesce volante.
— Dove siamo diretti? — chiese Arren nel crepuscolo inoltrato, dopo un abbondante pasto di carne salata e di pane duro, di nuovo insonnolito.
— Lorbanery — rispose Sparviero, e quelle sillabe morbide formarono l’ultima parola che Arren udì quella notte, e i suoi sogni, all’inizio, vennero a intessersi intorno a quel nome. Sognò di camminare tra refoli di sostanza soffice e pallida, fili e frammenti rosa e aurei e celesti, e provò un piacere infantile; qualcuno gli disse: — Questi sono i serici campi di Lorbanery, dove non viene mai buio. — Ma più tardi, verso la fine della notte, quando le stelle dell’autunno brillarono nel cielo di primavera, sognò di trovarsi in una casa in rovina. Lì l’aria era asciutta. Tutto era polveroso, festonato di ragnatele lacere. Arren aveva le gambe aggrovigliate nelle ragnatele, che gli fluttuavano anche sulla bocca e sulle narici arrestandogli il respiro. E la cosa più atroce era di sapere che quella grande stanza in rovina era quella dove aveva fatto colazione insieme ai Maestri, nella Grande Casa di Roke.
Si svegliò sgomento, col cuore che gli batteva forte e le gambe strette e indolenzite contro la fiancata. Si levò a sedere, cercando di liberarsi dal sogno malefico. A oriente non c’era ancora la luce, ma solo un attenuarsi dell’oscurità. L’albero scricchiolava; la vela, ancora tesa dalla brezza di nordest, luccicava alta e indistinta sopra di lui. A poppa, il suo compagno dormiva profondamente, in silenzio. Si sdraiò di nuovo e si assopì, fino a quando lo destò il giorno fatto.
Quel giorno il mare era più azzurro e calmo di quanto lui avesse mai immaginato, e l’acqua era così tiepida e limpida che nuotare era un po’ come fluttuare nell’aria: era strano, quasi come un sogno.
A mezzogiorno chiese: — I maghi attribuiscono molta importanza ai sogni?
Sparviero stava pescando. Osservava attentamente la lenza. Dopo un lungo silenzio replicò: — Perché?
— Mi chiedevo se contengono qualche verità.
— Sicuramente.
— Predicono il futuro?
Ma un pesce aveva abboccato; e dieci minuti più tardi, quando il mago ebbe tirato a bordo il loro pranzo, uno splendido persico di mare, azzurro-argento, la domanda era ormai dimenticata.
Nel pomeriggio, mentre oziavano, sotto il tendone teso per ripararli dal sole imperioso, Arren chiese: — Cosa cerchiamo, a Lorbanery?
— Quello che cerchiamo — rispose Sparviero.
— A Enlad — disse Arren, dopo un po’, — si racconta la storia di un bambino che aveva per maestro di scuola un sasso.
— Sì?… E cos’aveva imparato?
— A non fare domande.
Sparviero sbuffò, come per reprimere una risata, e si levò a sedere. — Molto bene! — esclamò. — Tuttavia, preferisco non parlare fino a quando non so cosa devo dire. Perché non c’è più magia a Città Hort e a Narveduen e forse in tutti gli stretti? È questo che cerchiamo di scoprire, no?
— Sì.
— Conosci la vecchia massima «le regole cambiano, negli stretti»? La usano i marinai, ma è una massima dei maghi, e significa che perfino la magia dipende dai luoghi. Un vero incantesimo su Roke, su Iffish può essere solo parole vane. La lingua della Creazione non è ricordata dovunque: qui una parola, là un’altra. E perfino la tessitura degli incantesimi è tramata dalla terra e dall’acqua, dai venti e dal modo in cui scende la luce nel luogo dove vengono gettati. Una volta mi sono spinto nell’estremo oriente, così lontano che il vento e l’acqua non ubbidivano al mio comando perché ignoravano i loro veri nomi; o più probabilmente l’ignorante ero io.