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«Il mondo è molto grande, il mare aperto si stende assai più lontano di quanto si conosca; e ci sono altri mondi, oltre il mondo. Su quegli abissi di spazio, e nella lunga estensione del tempo, non credo che esista una parola capace di portare, dovunque e per sempre, il peso del suo significato e il suo potere; a meno che sia la Prima Parola che pronunciò Segoy, e che non è più stata detta e non verrà più detta fino a quando tutte le cose verranno annientate… Quindi, anche in questo mondo del nostro Earthsea, tra le piccole isole a noi note, ci sono diversità e misteri e mutamenti. E il luogo meno noto, e più carico di misteri, è lo Stretto Meridionale. Pochi maghi delle Terre Interne sono giunti fra quelle genti. Là non gradiscono gli incantatori, poiché possiedono (così si crede) una loro magia. Ma sono dicerie vaghe, e forse l’arte magica non è mai stata ben conosciuta, là, né veramente compresa. In tal caso potrebbe essere annullata agevolmente da chi decidesse di annullarla, e s’indebolirebbe più facilmente della nostra magia delle Terre Interne. E allora potremmo sentir parlare della decadenza della magia nel sud.

«Perché la disciplina è il canale in cui le nostre azioni scorrono forti e profonde; là dove non c’è direzione, gli atti degli uomini sono superficiali, e vagano e si sprecano. Così, quella donna grassa bardata di specchietti ha perso la sua arte ed è convinta di non averla mai posseduta. Così Lepre prende l’hazia e crede di essersi spinto più lontano di tutti i maghi più grandi, mentre è entrato a malapena nei campi del sogno e già si è perduto… Ma dove crede di andare? Che cosa cerca? Che cosa ha ingoiato la sua magia? Ne abbiamo avuto abbastanza di Città Hort, credo, perciò ci spingiamo più a sud, a Lorbanery, per vedere cosa vi fanno gli incantatori, per scoprire cos’è che dobbiamo scoprire… Ti basta, come risposta?»

— Sì, ma…

— Allora lascia che il sasso rimanga per un poco in silenzio — disse il mago. E stette accanto all’albero, nell’ombra giallastra e chiara del tendone, e guardò il mare, verso occidente, mentre la barca veleggiava dolcemente verso il sud, nel sole del pomeriggio. Stava seduto eretto, taciturno e immobile. Trascorsero le ore. Arren si tuffò un paio di volte per nuotare, scivolando quietamente nell’acqua dalla poppa perché non voleva attraversare la linea dello sguardo di quegli occhi scuri, rivolto verso occidente, sopra il mare, come se vedesse lontano, al di là del luminoso orizzonte, al di là dell’azzurro dell’aria e dei confini della luce.

Sparviero riemerse infine dal suo silenzio e riprese a parlare, anche se la sua conversazione si limitò a una o due parole per volta. L’educazione ricevuta aveva reso Arren capace d’intuire prontamente gli umori mascherati dalla cortesia e dalla riservatezza; sapeva che il suo compagno aveva il cuore pesante. Non gli fece altre domande; venuta sera, chiese: — Se canto, disturbo i tuoi pensieri? — Sparviero rispose, sforzandosi di assumere un tono scherzoso: — Dipende dal modo in cui canti.

Arren si sedette, con le spalle appoggiate all’albero, e cantò. La sua voce non era acuta e dolce come quando il maestro di musica del palazzo di Berila l’aveva educata, anni addietro, traendo armonie dalla grande arpa; adesso i toni più alti erano robusti e quelli profondi avevano la risonanza di una viola, scuri e chiari. Cantò il Lamento per l’incantatore bianco, la trenodia che Elfarran aveva composto quando aveva saputo della morte di Morred e attendeva la propria. È un canto che non viene cantato di frequente o alla leggera. Sparviero ascoltò quella voce giovanile, forte e sicura, e mesta tra il cielo rosseggiante e il mare, e le lacrime gli riempirono gli occhi, accecanti.

Arren rimase in silenzio piuttosto a lungo, dopo quel canto; poi prese a intonare melodie meno importanti e più lievi, a bassa voce, attenuando la grande monotonia dell’aria senza vento e del mare ondeggiante e della luce che si affievoliva nell’appressarsi della notte.

Quando smise di cantare, tutto era silenzioso; il vento era caduto, le onde erano piccole, e il legno e le cime scricchiolavano appena. Il mare taceva, e a una a una spuntavano le stelle. A sud, vivida e penetrante, apparve una luce gialla, che gettò sull’acqua una pioggia di schegge d’oro.

— Guarda! Un faro! — Poi, dopo un minuto: — Possibile che sia una stella?

Sparviero la contemplò per lunghi istanti, e infine disse: — Credo che sia la stella Gobardon. La si può vedere soltanto dallo Stretto Meridionale. Gobardon significa Corona. Kurremkarmerruk ci insegnò che, navigando ancora più a sud, si scoprono altre otto stelle una dopo l’altra, tra l’orizzonte e Gobardon, che formano una grande costellazione: alcuni dicono che rappresenta un uomo in corsa, altri la Runa Agnen. La Runa della Fine.

Guardarono la stella che sorgeva dall’inquieto orizzonte del mare e brillava di luce costante.

— Hai cantato il lamento di Elfarran — disse Sparviero, — come se tu conoscessi la sua angoscia e la facessi conoscere anche a me… Tra tutte le storie di Earthsea, mi ha sempre affascinato più di ogni altra. Il grande coraggio di Morred, in lotta contro la disperazione; e Serriadh che nacque al di là della disperazione, il re dolce. E lei, Elfarran. Quando io commisi il male più grande che abbia mai commesso, credevo di rivolgermi alla sua bellezza; e la vidi… Per un momento, vidi Elfarran.

Un brivido freddo corse lungo la schiena di Arren. Lui deglutì e rimase in silenzio, guardando la bellissima stella minacciosa, gialla come un topazio.

— Qual è il tuo eroe preferito? — chiese il mago; e Arren rispose, con una leggera esitazione: — Erreth-Akbe.

— Perché era il più grande?

— Perché avrebbe potuto governare su tutto Earthsea ma scelse di non farlo e se ne andò da solo e morì solo, combattendo contro il drago Orm sulla spiaggia di Selidor.

Restarono così per un poco, ognuno immerso nei propri pensieri; poi Arren domandò, senza distogliere gli occhi dalla gialla Gobardon: — È vero, dunque, che i morti possono essere riportati in vita dalla magia e possono parlare alle anime viventi?

— Mediante gli incantesimi dell’Evocazione. È un nostro potere. Ma questo viene fatto molto di rado, e dubito che farlo sia saggio. In questo, il Maestro Evocatore è pienamente d’accordo con me: lui non usa e non insegna la Tradizione di Paln, che racchiude quegli incantesimi. Il più grande di tutti venne ideato da colui che è chiamato Mago Grigio di Paln, mille anni orsono. Evocava gli spiriti degli eroi e dei maghi, e perfino quello di Erreth-Akbe, per consigliare i signori di Paln nelle guerre e nel governo. Ma per Paln vennero tempi duri; e il Mago Grigio venne scacciato: morì senza nome.

— Quindi è una cosa malvagia?

— Direi piuttosto che si tratta di un equivoco. Un equivoco sulla vita. Morte e vita sono la stessa cosa… come i due lati della mia mano, il palmo e il dorso. Eppure il palmo e il dorso non sono la stessa cosa… Non è possibile separarli né confonderli.

— Allora nessuno usa più quegli incantesimi?

— Ho conosciuto soltanto un uomo che li usava spensieratamente, senza tener conto dei rischi. Perché sono rischiosi, più pericolosi di qualunque altra magia. La morte e la vita sono come i due lati della mia mano, ho detto, ma in verità noi non sappiamo cosa sia la vita né cosa sia la morte. Rivendicare il potere su ciò che non comprendi non è saggio, ed è difficile che il risultato sia benefico.

— Chi era l’uomo che li usava? — chiese Arren. Sparviero non si era mai mostrato disposto a rispondere alle domande come adesso, in quell’atmosfera tranquilla e pensierosa: entrambi trovavano consolazione in quel colloquio, anche se l’argomento che trattavano era tenebroso.