— Viveva in Havnor. Lo consideravano un semplice incantatore ma era un grande mago, per il suo potere innato, istintivo. Guadagnava denaro, con la sua arte; mostrava a chi lo pagava lo spirito che quello desiderava vedere, la moglie morta, o il marito o il figlio defunto, e riempiva la sua casa di ombre irrequiete dei secoli antichi, le belle donne dei tempi dei re. Io gli ho visto evocare dalla Terra Arida il mio vecchio maestro, che era stato arcimago durante la mia giovinezza, Nemmerle: e l’aveva fatto solo per divertire un gruppo di sfaccendati. E quella grande anima accorse al suo richiamo, come un cane ubbidiente. Mi infuriai, e lo sfidai (non ero arcimago, allora) dicendo: «Tu costringi i morti a venire nella tua casa: sei disposto a venire con me nella loro?». E lo costrinsi a venire con me nella Terra Arida, sebbene si opponesse con tutta la sua forza di volontà e mutasse forma e piangesse a voce alta, quando si accorse che tutto il resto era inutile.
— E allora l’hai ucciso? — bisbigliò Arren, affascinato.
— No! Lo costrinsi a seguirmi nella terra dei morti, e a ritornarne insieme a me. Aveva paura. Lui che chiamava a sé i morti con tanta disinvoltura aveva paura della morte, della propria morte, più di qualunque altro uomo che io abbia mai conosciuto. Al muro di pietre… Ma ti sto dicendo più di quanto sia lecito sapere a un novizio. E tu non sei neppure un novizio. — Nel crepuscolo, gli occhi acuti ricambiarono per un momento lo sguardo di Arren, suscitando in lui un senso di timidezza e di vergogna. — Non importa — disse l’arcimago. — C’è un muro di pietre, dunque, in un certo luogo, al confine. Lo spirito lo varca e va alla morte, e l’uomo vivo può varcarlo e ritornare, se è un mago… Accanto al muro di pietre, quell’uomo si accovacciò, dalla parte dei vivi, e cercò di resistere alla mia volontà, ma non poté. Si aggrappava con le mani alle pietre, e imprecava e urlava. Non ho mai visto una simile paura: la sua nausea nauseava anche me. E questo avrebbe dovuto farmi comprendere che sbagliavo. Ero in preda all’ira e alla vanità. Perché lui era fortissimo, e io smaniavo dal desiderio di dimostrare che ero ancora più forte.
— E dopo cos’ha fatto, quando siete ritornati?
— Si umiliò, e giurò di non usare mai più la Tradizione di Paln; mi baciò la mano, e mi avrebbe ucciso, se avesse osato farlo. Lasciò Havnor e se ne andò in occidente, forse a Paln: anni dopo venni a sapere che era morto. Aveva già i capelli canuti quando lo conobbi, sebbene avesse le braccia lunghe e fosse agile come un lottatore. Che cosa mi ha indotto a parlare di lui? Non riesco neppure a rammentare il suo nome.
— Il suo vero nome?
— No! Quello lo ricordo… — Sparviero s’interruppe, e per lo spazio di tre battiti di cuore restò immobile, in silenzio.
— Lo chiamavano Pannocchia, a Havnor — disse con voce mutata, guardinga. Si era fatto troppo buio perché fosse possibile scorgere la sua espressione. Arren lo vide voltarsi a scrutare la stella gialla, che adesso era più alta sulle onde e gettava sull’acqua una scia spezzata d’oro, sottile come un filo di ragno. Dopo un lungo silenzio disse: — Non è solo nei sogni, capisci, che ci troviamo di fronte a ciò che deve ancora essere in ciò che è dimenticato da molto tempo, e diciamo cose che sembrano assurde perché non ne comprendiamo il significato.
LORBANERY
Vista attraverso dieci miglia d’acqua illuminata dal sole, Lorbanery era verde, verde come il muschio brillante sull’orlo di una fontana. Da vicino si frammentava in fronde, e tronchi d’albero e ombre e strade e case, e volti e indumenti di esseri umani, e polvere, e tutto ciò che compone un’isola abitata dagli uomini. Eppure, nel complesso, era ancora verde: perché ogni acro che non era coperto da case o da strade era lasciato ai bassi e tondeggianti alberi di hurbah, delle cui foglie si nutrono i piccoli bachi che filano la seta, tessuta poi dagli uomini e dalle donne e dai bambini di Lorbanery. Al crepuscolo, l’aria si riempie di piccoli pipistrelli grigi che si nutrono di quei bachi. Ne divorano molti, ma i tessitori di seta li lasciano fare e non li uccidono, e anzi considerano di malaugurio l’uccisione dei pipistrelli dalle ali grige. Perché, dicono, se gli esseri umani vivono dei bachi, anche le piccole nottole hanno il diritto di farlo.
Le case erano strane, con le finestrelle situate a casaccio e i tetti di ramoscelli di hurbah, tutti verdi di muschio e di licheni. Era stata un’isola ricca, per quanto lo sono le isole dello stretto, e lo si poteva vedere tuttora nelle case ben dipinte e ben arredate, nei grandi arcolai e telai delle casette e degli opifici, e nei pontili di pietra del piccolo porto di Sosara, dove potevano attraccare parecchie grandi galee. Ma non c’erano galee, nel porto. Il colore delle case era sbiadito, non c’erano mobili nuovi, e quasi tutti gli arcolai e telai erano fermi, coperti di polvere, e c’erano ragnatele tra un pedale e l’altro, fra intelaiatura e ordito.
— Incantatori? — disse il sindaco del villaggio di Sosara, un ometto dalla faccia dura e brunita come le piante dei suoi piedi scalzi. — Non ci sono incantatori, a Lorbanery. Non ci sono mai stati.
— Chi l’avrebbe mai pensato? — esclamò Sparviero in tono d’ammirazione. Stava seduto in compagnia di otto o nove abitanti del villaggio, e beveva vino di bacche di hurbah, un’annata mediocre e dal sapore amaro. Aveva dovuto dire che si era spinto nello Stretto Meridionale in cerca di pietre emmel, ma non aveva camuffato se stesso né il suo compagno: solo, Arren aveva lasciato la sua spada nascosta a bordo della barca, come al solito; e se Sparviero aveva con sé il suo bastone, non si vedeva. Gli abitanti del villaggio, all’inizio, si erano mostrati cupi e ostili, ed erano pronti a ridiventare ostili e cupi da un momento all’altro: solo l’abilità e l’autorità di Sparviero li aveva costretti ad accettarli, sia pure di malavoglia. — Dovete avere uomini meravigliosamente esperti nella cura degli alberi — disse. — Cosa fanno, quando una gelata in ritardo colpisce le piantagioni?
— Niente — rispose un uomo scarno, in fondo alla fila. Erano seduti così, tutti in fila, con la schiena appoggiata al muro della locanda, sotto la sporgenza del tetto di fronde. A poca distanza dai loro piedi scalzi, le grandi e dolci gocce della pioggia d’aprile battevano sul terreno.
— Il pericolo è la pioggia, non il gelo — disse il sindaco. — Fa marcire i bozzoli. Nessuno può impedire alla pioggia di cadere. Nessuno c’è mai riuscito. — Era bellicoso, quando sentiva parlare di maghi e di magia; alcuni degli altri sembravano più immalinconiti. — Un tempo non pioveva mai, in questa stagione — aggiunse un altro. — Quando era ancora vivo il vecchio.
— Chi? Il vecchio Mildi? Be’, non è più vivo. È morto — osservò il sindaco.
— Lo chiamavano Piantatore — disse l’uomo magro. — Sì. Lo chiamavano Piantatore — confermò un altro. Scese un silenzio, come la pioggia.
Arren sedeva nella nicchia della finestra della locanda, che aveva un’unica stanza. Aveva trovato un vecchio liuto appeso a una parete, un liuto allungato, a tre corde, come si usano nell’isola della Seta, e adesso lo suonava, imparando a trarne una musica, non molto più forte del ritmo della pioggia sul tetto di fronde.
— Nei mercati di Città Hort — disse Sparviero, — ho visto vendere stoffe presentate come seta di Lorbanery. Alcune erano seta: ma nessuna era vera seta di Lorbanery.
— Le stagioni vanno male — commentò l’uomo magro. — Da quattro o cinque anni, ormai.
— Sono cinque anni, dalla Vigilia dell’Aratura — precisò un vecchio, in tono borbottante, soddisfatto di sé, — da quando è morto il vecchio Mildi; sì, è morto, e non aveva neppure l’età che io ho adesso. È morto alla Vigilia dell’Aratura.