Neanche nelle piccole cose valeva la pena di far conto sulla magia. Sparviero era sempre avaro delle sue arti: viaggiavano spinti dal vento del mondo quand’era possibile, pescavano per procurarsi da mangiare, e razionavano l’acqua come tutti i marinai. Dopo quattro giorni di bordeggi interminabili in un vento contrario che arrivava a raffiche convulse, Arren gli domandò se non poteva chiamare un vento favorevole nella vela; e quando il mago scosse la testa, lui disse: — Perché no?
— Non chiederei mai a un uomo malato di partecipare a una gara di corsa — rispose Sparviero, — né aggiungerei una pietra a un dorso già troppo carico. — Era impossibile capire se parlava di se stesso o del mondo in generale. Le sue risposte erano sempre burbere, e difficili da comprendere. Quello, pensò Arren, era il vero cuore della magia: alludere a significati grandiosi mentre non si diceva nulla, e far sì che l’inazione apparisse come il supremo coronamento della saggezza.
Arren si era sforzato d’ignorare Sopli, ma era impossibile: comunque, ben presto si trovò legato al pazzo da una specie di alleanza. Sopli non era pazzo, o almeno non così semplicemente come lo facevano sembrare quei suoi capelli scarmigliati e il suo eloquio frammentario. In verità, l’aspetto più folle del suo carattere era forse il terrore che provava per l’acqua. Per salire su una barca aveva dovuto attingere a un coraggio disperato, e non era mai riuscito a smussare la paura: teneva la testa bassa per non dover vedere l’acqua che si gonfiava e lambiva intorno a lui. Stare in piedi gli dava le vertigini: si aggrappava all’albero. La prima volta che Arren decise di nuotare un po’ e si tuffò dalla prua, Sopli lanciò grida d’orrore; quando il ragazzo risalì a bordo, il poveraccio era verde. — Credevo che volessi annegarti — disse, e Arren dovette ridere.
Quel pomeriggio, mentre Sparviero stava seduto a meditare e sembrava che non vedesse nulla e non si curasse di nulla, Sopli si trascinò cautamente verso Arren. Chiese, a voce bassa: — Tu non vuoi morire, vero?
— Certo che no.
— Lui sì — disse Sopli, indicando Sparviero con un piccolo movimento della mandibila.
— Perché dici questo?
Arren aveva assunto un tono di principesca alterezza che per la verità gli veniva naturale; e Sopli l’accettò con la stessa naturalezza, sebbene avesse dieci o quindici anni più di lui. Rispose prontamente e con cortesia, anche se in quel suo solito modo frammentario. — Lui vuole andare nel luogo segreto. Ma non so perché. Lui non vuole… Non crede nella… nella promessa.
— Quale promessa?
Sopli alzò bruscamente gli occhi verso Arren, con un’espressione di umanità devastata; ma la volontà di Arren era più forte. Rispose, a voce molto bassa: — Lo sai. La vita. La vita eterna.
Un grande gelo invase le membra di Arren. Ricordò i suoi sogni: la brughiera, il gorgo, gli strapiombi, la luce fosca. Quella era la morte; quello era l’orrore della morte. Doveva sottrarsi alla morte, trovare la via. E sulla soglia stava la figura incoronata d’ombra, che protendeva una luce minuscola, non più grande di una perla, lo scintillio della vita immortale.
Arren incontrò per la prima volta gli occhi di Sopli: erano castani, molto chiari. E in quegli occhi vide che lui aveva finalmente compreso e che Sopli condivideva la sua conoscenza.
— Lui — disse il Tintore, indicando di nuovo Sparviero con un movimento della mandibola — non vuole rinunciare al suo nome. Nessuno può portare al di là il suo nome. La via è troppo stretta.
— Tu l’hai vista?
— Nella tenebra, nella mia mente. Non basta. Voglio arrivarci: voglio vederla. Nel mondo, con i miei occhi. E se… e se morissi, e non riuscissi a trovare la via, il posto? Molti non possono trovarlo: non sanno neppure che esiste. Solo alcuni di noi hanno il potere. Ma è difficile, perché si deve rinunciare al potere per arrivarci… Niente più parole. Niente più nomi. È troppo difficile farlo nella mente. E quando uno… muore, la sua mente… muore. — Ogni volta, s’impuntò sulla parola. — Io voglio sapere che potrò tornare. Voglio andare là. Dalla parte della vita. Voglio vivere, essere al sicuro. Odio… odio quest’acqua…
Il Tintore rattrappì le membra come fa un ragno quando cade, e ritrasse la testa fulva e ispida tra le spalle, per escludere la vista del mare.
Ma dopo quella volta Arren non evitò più di conversare con lui, poiché sapeva che Sopli non condivideva soltanto la sua visione ma anche la sua paura; e che, se si fosse arrivati al peggio, forse avrebbe potuto aiutarlo contro Sparviero.
Continuavano ad avanzare lentamente, tra le bonacce e le brezze irregolari, verso occidente, dove Sparviero affermava che Sopli li stava guidando. Ma Sopli non li guidava affatto: non sapeva nulla del mare, non aveva mai visto una carta nautica, non era mai salito su una barca, temeva l’acqua con un terrore morboso. Era il mago, a guidarli, e li conduceva volutamente fuori strada. Adesso Arren se ne rendeva conto, e ne capiva la ragione. L’arcimago sapeva che loro, e altri come loro, cercavano la vita eterna: ne avevano ricevuto la promessa, ne venivano attratti, e avrebbero potuto trovarla. Nel suo orgoglio, il suo schiacciante orgoglio di arcimago, temeva che la trovassero: li invidiava, e li temeva, e non voleva permettere che un altro uomo diventasse più grande di lui. Aveva intenzione di spingersi nel mare aperto, al di là di tutte le terre, finché si fossero perduti completamente e non potessero più ritornare nel mondo; e allora sarebbero morti di sete. Perché era disposto a morire anche lui, pur d’impedire loro di raggiungere la vita eterna.
Di tanto in tanto veniva il momento in cui Sparviero parlava ad Arren di piccole cose relative al governo della barca, o nuotava insieme a lui nel caldo mare, e gli augurava la buonanotte, sotto le grandi stelle: e al ragazzo, allora, tutte quelle idee sembravano completamente assurde. Guardava il suo compagno e vedeva quel volto duro, aspro, paziente e pensava: questo è il mio signore e amico. E gli pareva incredibile di aver dubitato. Ma poco dopo dubitava ancora, e lui e Sopli si scambiavano occhiate per mettersi reciprocamente in guardia contro il nemico comune.
Ogni giorno il sole splendeva ardente, e tuttavia opaco. La sua luce era come una patina invetriata sulle lente onde del mare. L’acqua era azzurra e il cielo era azzurro, senza mutamenti, senza sfumature. Le brezze spiravano e cadevano, e loro giravano la vela per sfruttarle e avanzavano lentamente, senza una meta.
Un pomeriggio, finalmente, incontrarono un leggero vento propizio; e Sparviero tese il braccio in direzione del tramonto, dicendo: — Guarda. — In alto, sopra l’albero, una fila di oche marine tremolava come una runa nera tracciata attraverso il cielo. Le oche volavano verso occidente; e, seguendole, il giorno successivo la Vistacuta giunse nei pressi di una grande isola.
— Eccola — disse Sopli. — Quella terra. È là, che dobbiamo andare.
— Il luogo che cerchi è là?
— Sì. Dobbiamo sbarcare. Non possiamo andare oltre.
— Quella terra dev’essere Obehol. Più oltre, nello Stretto Meridionale, c’è un’altra isola, Wellogy. E nello Stretto Occidentale ci sono isole ancora più a ovest di Wellogy. Ne sei certo?
Il Tintore di Lorbanery s’incollerì, e l’espressione agghiacciante riapparve nei suoi occhi; ma non parlò da pazzo, pensò Arren, come invece aveva fatto quando avevano parlato per la prima volta con lui, molti giorni prima, a Lorbanery. — Sì. Dobbiamo sbarcare qui. Siamo andati abbastanza lontano. Il posto che cerchiamo è qui. Devo giurare che lo so? Vuoi che giuri sul mio nome?