Apparve un ometto d’età indefinibile. Non era giovane, e veniva istintivo chiamarlo vecchio, ma quella parola non gli si addiceva. Il suo volto era asciutto e del colore dell’avorio, e aveva un sorriso simpatico che tracciava lunghe curve sulle sue guance. — Cosa c’è, Ged? — chiese.
Infatti erano soli, e lui era una delle sette persone al mondo che conoscevano il nome dell’arcimago. Le altre erano il Maestro dei Nomi di Roke; e Ogion il Taciturno, il mago di Re Albi che molto tempo addietro, sulla montagna di Gont, aveva dato a Ged quel nome; e la Bianca Signora di Gont, Tenar dell’Anello; e un incantatore di un villaggio di Iffish, chiamato Veccia; e ancora a Iffish la moglie di un carpentiere, madre di tre figlie, che ignorava la magia ma era sapiente in altre cose, e che era chiamata Millefoglie; e infine, dall’altra parte di Earthsea, all’estremo occidente, due draghi: Orm Embar e Kalessin.
— Dovremo riunirci, questa sera — disse l’arcimago. — Io andrò dal Maestro degli Schemi. E manderò a chiamare Kurremkarmerruk, perché riponga gli elenchi e lasci riposare i suoi discepoli per una serata e venga da noi, anche se non in persona. Tu provvederai agli altri?
— Sì — rispose il Portinaio, sorridendo, e se ne andò; e anche l’arcimago se ne andò; e la fontana continuò a parlare a se stessa, serenamente, incessantemente, nel sole dell’inizio di primavera.
In qualche luogo, a ovest della Grande Casa di Roke e spesso un po’ a sud, si vede di solito il Bosco Immanente. Non appare sulle mappe e non c’è modo di penetrarvi, se non per coloro che ne conoscono il modo e la strada. Ma anche i novizi e i contadini e gli abitanti delle città possono vederlo, sempre da una certa distanza: un bosco d’alberi molto alti, le cui foglie hanno una sfumatura dorata nel loro verdeggiare, perfino in primavera. E tutti — i novizi, i contadini, gli abitanti delle città — pensano che il Bosco si muova in modo enigmatico e sconcertante. Ma s’ingannano, perché il Bosco non si muove. Le sue radici sono le radici dell’essere. È tutto il resto, a muoversi.
Ged aveva lasciato la Grande Casa e camminava tra i campi. Si tolse il mantello bianco, perché il sole era al meriggio. Un contadino che stava arando le brune pendici di un colle levò la mano in atto di saluto, e Ged rispose con un gesto uguale. Stormi di uccellini s’innalzarono nell’aria, cantando. L’erba scintilla stava incominciando a fiorire nei prati e lungo le strade. A grande altezza, un falco tracciò un ampio arco nel cielo. Ged lo guardò, e levò di nuovo la mano. Il falco si tuffò, in un fremito di piume gonfie di vento, e si posò sul polso proteso, stringendolo con i gialli artigli. Non era uno sparviero, bensì un grande falcone di Ender, un falco pescatore screziato di bianco e di bruno. Guardò in tralice l’arcimago con un tondo occhio d’oro fulgido, poi sbatté il becco adunco e lo fissò con entrambi gli occhi dorati. — Intrepido — gli disse l’arcimago nella lingua della Creazione.
Il grosso falco sbatté le ali e strinse più forte gli artigli, guardandolo.
— Va’, dunque, fratello intrepido.
Il contadino, lontano sulla collina sotto il cielo luminoso, si era soffermato a guardare. Una volta, l’autunno precedente, aveva visto l’arcimago farsi discendere sul polso un uccello selvatico: e dopo un attimo non aveva più visto l’uomo, ma due falchi che ascendevano nel vento.
Questa volta si separarono, mentre il contadino stava a osservare: l’uccello s’involò nell’aria, l’uomo riprese a camminare attraverso i campi fangosi.
Ged raggiunse il sentiero che conduceva al Bosco Immanente, un sentiero che procedeva sempre diritto anche se il tempo e il mondo gli si aggiravano intorno tortuosamente: e percorrendolo giunse presto sotto l’ombra degli alberi.
Alcuni di quegli alberi avevano un tronco immane. Quando li si guardava, si poteva credere finalmente che il Bosco non si muovesse mai: erano come torri esistenti da tempo immemorabile e ingrigite dagli anni; le loro radici erano come le radici delle montagne. Eppure erano i più antichi, e alcuni avevano le fronde già rade e qualche ramo morto. Non erano immortali. In mezzo ai giganti crescevano arboscelli, alti e vigorosi, con chiome di fogliame vivido, e pianticelle ancora più giovani, esili fuscelli fronzuti non più alti di una bambina.
Il suolo ai piedi degli alberi era soffice, arricchito dalle foglie imputridite di tanti anni. Vi crescevano felci e piccole piante dei boschi; ma c’era un’unica specie di albero, che non aveva nome nella lingua hardese di Earthsea. Sotto le fronde l’aria aveva un fresco profumo di terra, e un sapore come di viva acqua di sorgente.
In una radura aperta molti anni prima dalla caduta di un enorme albero, Ged incontrò il Maestro degli Schemi, che viveva nel Bosco e non ne usciva mai o quasi mai. Aveva i capelli gialli come il burro: non era originario dell’arcipelago. Dopo il ritorno dell’Anello di Erreth-Akbe, i barbari di Kargad avevano smesso le incursioni instaurando rapporti di pacifico commercio con le Terre Interne. Non erano tipi amichevoli, e si tenevano in disparte. Ma di tanto in tanto un giovane guerriero o il figlio di un mercante si spingeva tutto solo verso ovest, attirato dall’amore per l’avventura o dal desiderio di apprendere la magia. E così era giunto dieci anni prima il Maestro degli Schemi: un giovane selvaggio di Karego-At, con la spada alla cintura e un pennacchio rosso sulla testa, arrivato a Gont in un mattino di pioggia; aveva detto al Portinaio, in hardese stentato e imperioso: — Io vengo per imparare! — E adesso stava sotto gli alberi, nella luce verde-dorata, alto e bello, con i lunghi capelli chiari e gli strani occhi verdi, il Maestro degli Schemi di Earthsea.
Forse conosceva anche lui il nome di Ged; ma se anche lo conosceva, non lo pronunciava mai. Si scambiarono un saluto in silenzio.
— Cosa stai osservando? — chiese l’arcimago, e l’altro gli rispose: — Un ragno.
Tra due alti fili d’erba, nella radura, un ragno aveva intessuto una ragnatela, un cerchio delicatamente sospeso. Gli argentei fili riflettevano la luce del sole. Al centro attendeva il tessitore, una cosettina nero-grigia non più grande di una pupilla.
— Anche quello è un maestro di schemi — disse Ged, studiando l’ingegnosa ragnatela.
— Che cos’è il male? — chiese l’uomo più giovane.
La ragnatela rotonda, con il suo centro nero, sembrava osservarli entrambi.
— Una ragnatela intessuta da noi uomini — rispose Ged.
In quel bosco non c’erano uccelli che cantassero. Era silente e caldissimo, nella luce del meriggio. Intorno a loro stavano gli alberi e le ombre.
— Sono giunte notizie da Narveduen e da Enlad: identiche.
— Sud e sudovest. Nord e nordovest — disse il Maestro degli Schemi, senza distogliere lo sguardo dalla tela rotonda.
— Verremo qui, questa sera. È il luogo più indicato per tenervi consiglio.
— Io non ho consigli da dare. — Il Maestro degli Schemi posò lo sguardo su Ged, e i suoi occhi verdi erano freddi. — Ho paura — disse. — C’è paura. Paura delle radici.
— Sì — replicò Ged. — Dobbiamo cercare le sorgenti più profonde, credo. Abbiamo goduto troppo a lungo della luce del sole, crogiolandoci nella pace apportata dall’Anello, realizzando piccole cose, pescando nei bassi fondali. Questa notte dobbiamo interrogare gli abissi. — E lasciò solo il Maestro degli Schemi, che continuava a fissare il ragno tra l’erba assolata.
Al limitare del Bosco, dove le fronde dei grandi alberi si protendevano all’esterno, sul terreno normale, si sedette con la schiena appoggiata a una radice possente e col bastone sulle ginocchia. Chiuse gli occhi, come se riposasse, e trasmise un messaggio del suo spirito oltre le colline e i campi di Roke, verso nord, verso il promontorio assediato dal mare dove sorgeva la Torre Isolata.
— Kurremkarmerruk — disse in spirito; e il Maestro dei Nomi alzò la testa dal grosso volume dei nomi di radici e erbe e foglie e semi e petali che stava leggendo ai suoi allievi, e disse: — Sono qui, mio signore.