— Tu hai occhi d’aquila, mio signore — commentò Arren, scrutando il mare con gli occhi assonnati, senza scorgere nulla.
— Io sono lo Sparviero — disse il mago; era ancora gaio, e sembrava che scacciasse da sé ogni triste presentimento. — Non riesci a vederle?
— Vedo i gabbiani — rispose Arren dopo essersi stropicciato gli occhi, scrutando l’orizzonte azzurro-grigio davanti alla barca.
Il mago rise. — Neppure un falco potrebbe vedere i gabbiani a una distanza di venti miglia.
Quando il sole si ravvivò sopra le nebbie a oriente, i minuscoli punti volteggianti che Arren osservava parvero scintillare, come polvere d’oro scossa nell’acqua o particelle di polvere in un raggio di sole. E allora Arren si accorse che erano draghi.
Mentre la Vistacuta si avvicinava alle isole, Arren vide i draghi che volavano in cerchio e planavano sul vento mattutino, e il cuore gli balzò di gioia, la gioia dell’esaudimento che quasi sembrava sofferenza. Tutta la gloria della mortalità era nel loro volo. La loro bellezza era fatta di forza terribile, scatenata e selvaggia, e dell’eleganza della ragione. Perché erano creature pensanti, dotate di eloquio e di un’antica saggezza: nelle trame del loro volo c’era una fiera e voluta concordia.
Arren non disse nulla, ma pensò: non m’importa ciò che verrà poi; ho visto i draghi nel vento del mattino.
Talvolta le trame diventavano scomposte, e i cerchi si spezzavano, e spesso, nel volo, un drago eruttava dalle narici un lungo getto di fiamma che s’incurvava e restava librato nell’aria per un momento, ripetendo la curva e il fulgore del lungo corpo arcuato del drago. Nel vederlo, il mago disse: — Sono irati. Danzano sfogando la loro collera nel vento.
E poi disse: — Ormai siamo nel nido dei calabroni. — Perché i draghi avevano visto la piccola vela sulle onde, e prima uno e poi un altro si staccarono dal vortice della danza e discesero, protesi nell’aria, remigando con le grandi ali verso la barca.
Il mago guardò Arren, che stava seduto al timone poiché le onde erano agitate e contrarie. Il ragazzo lo teneva saldo con mano ferma, sebbene i suoi occhi seguissero il battito di quelle ali. Sparviero tornò a voltarsi, come se fosse soddisfatto, e lasciò che il vento magico abbandonasse la vela. Alzò il bastone e parlò a voce alta.
Al suono di quella voce, alle parole della vecchia Lingua, alcuni draghi volteggiarono in volo, disperdendosi, e ritornarono alle isole. Altri si fermarono e rimasero librati nell’aria, con gli artigli simili a spade protesi ma trattenuti. Uno, scendendo più basso sull’acqua, volò lentamente verso di loro: con due colpi d’ala giunse sopra la barca. Il ventre corazzato sfiorò la cima dell’albero. Arren vide la pelle rugosa e priva di squame tra la giuntura interna della spalla e il petto, che, insieme all’occhio, è l’unica parte vulnerabile del drago, a meno che la lancia che lo colpisce sia dotata di un incantesimo possente. Il fumo che usciva a volute dalla lunga bocca dentata lo soffocava; e insieme al fumo veniva un lezzo di carogna che lo fece rabbrividire e l’assalì provocando conati di vomito.
L’ombra passò. Ritornò, bassa come prima, e questa volta Arren sentì il rovente soffio di fornace dell’alito che precedeva il fumo. Udì la voce di Sparviero, chiara e intensa. Il drago passò oltre. Poi tutti si allontanarono, ritornando verso le isole come lapilli ardenti portati da una raffica di vento.
Arren trattenne il respiro e si terse la fronte, coperta di sudore freddo. Guardò il suo compagno, e vide che la chioma gli si era sbiancata: l’alito del drago aveva bruciato e increspato la punta dei capelli. E la pesante vela era strinata e brunita da un lato.
— Hai la testa un po’ bruciacchiata, ragazzo.
— Anche tu, mio signore.
Sparviero si passò la mano sui capelli, sorpreso. — È vero… È stata un’insolenza: ma non cerco un dissidio con questi esseri. Mi sembrano furiosi o frastornati. Non hanno parlato. Non ho mai incontrato un drago che non parlasse prima di attaccare, se non altro per tormentare la sua preda… Ora dobbiamo andare avanti. Non guardarli negli occhi: distogli la faccia, se è necessario. Procederemo col vento del mondo: soffia propizio da sud, e forse avrò bisogno della mia arte per altre cose. Reggi la barca.
La Vistacuta avanzò e ben presto ebbe sulla sinistra un’isola lontana, e sulla destra le isolette gemelle che avevano avvistato per prime. Queste si ergevano in basse scogliere, e tutta la roccia scabra era imbiancata dallo sterco dei draghi e dalle piccole sterne a testa nera che facevano il nido, intrepide, fra loro.
I draghi si erano innalzati in volo e volteggiavano negli strati superiori dell’aria, come avvoltoi. Nessuno ridiscese in picchiata verso la barca. Talvolta si scambiavano grida, alte e aspre attraverso gli abissi aerei, ma se c’erano parole in quelle grida, Arren non le distingueva.
La barca aggirò un piccolo promontorio, e il ragazzo vide sulla spiaggia qualcosa che per un momento gli sembrò una fortezza diroccata. Era un drago. Teneva un’ala nera ripiegata e l’altra protesa, immensa, sopra la sabbia e nell’acqua, così che il movimento delle onde l’agitava un poco, in una parodia del volo. Il lungo corpo serpentino era disteso sulla roccia e la sabbia. Era mutilato di una zampa anteriore, la corazza e la carne erano strappate dal grande arco delle costole, e il ventre era squarciato, e tutt’intorno per metri e metri la sabbia era annerita dal sangue velenoso. Tuttavia, l’essere era ancora vivo. La vita è così possente, nei draghi, che soltanto un potere magico equivalente può ucciderli in modo rapido. Gli occhi verde-oro erano aperti; e quando la barca passò oltre, l’enorme testa scarna si mosse un poco e un vapore misto a spruzzi di sangue eruttò dalle narici con un sibilo rumoroso.
La spiaggia, tra il drago morente e la battigia, era segnata dalle impronte delle zampe e dei pesanti corpi dei suoi simili, e le sue viscere calpestate erano affondate nella sabbia.
Arren e Sparviero non parlarono fino a quando furono lontani dall’isola, attraverso l’inquieto canale dello stretto dei Draghi, irto di scogli e guglie e sagome di roccia, verso le isole settentrionali di quella doppia catena. Allora Sparviero disse: — Era uno spettacolo atroce. — E la sua voce era dura e fredda.
— Si… divorano tra loro?
— No. Non più di quanto facciamo noi. Sono impazziti. Gli è stata sottratta la favella. Loro che parlavano prima degli uomini, che sono più vecchi di ogni creatura vivente, i Figli di Segoy… sono stati sospinti verso il muto terrore delle bestie. Ah, Kalessin! Dove ti hanno portato le tue ali? Sei vissuto per vedere disonorata la tua razza? — La sua voce echeggiava come ferro percosso; e guardava in alto, scrutando il cielo. Ma i draghi erano indietro, e ora volteggiavano più bassi, sopra le isole rocciose e la spiaggia macchiata di sangue, e lassù non c’era altro che il cielo azzurro e il sole meridiano.
Non c’era al mondo nessun vivente, eccettuato l’arcimago, che avesse navigato nello Stretto dei Draghi o l’avesse visto. Vent’anni prima, o più, l’aveva navigato interamente da est a ovest, e l’aveva ripercorso al ritorno. Era un incubo e una meraviglia, per un marinaio. L’acqua era un labirinto di canali azzurri e di bassi fondali verdi; e adesso, con la mano e con la parola e con cura vigile, Sparviero e Arren vi guidavano la barca, tra le scogliere e le rocce. Alcune erano basse, coperte o semicoperte dallo sciacquio delle onde, rivestite di anemoni e cirripedi e felci marine sottili come nastri: sembravano mostri acquatici sinuosi o rivestiti di un guscio. Altre si ergevano ripide dal mare, in pareti e guglie, e c’erano archi e semiarchi, torri scolpite, forme fantastiche di animali, dorsi di cinghiali e teste di serpenti, tutti enormi, deformati, indistinti, come se la vita fremesse semiconscia nella pietra. Le onde del mare vi battevano con un suono che pareva un respiro, e loro erano bagnate dall’amara spuma lucente. In una di quelle rocce, da sud, si scorgevano chiaramente le spalle incurvate e la testa nobile e pesante di un uomo, chino e pensieroso sopra il mare; ma quando la barca l’ebbe superata, guardandola da nord, l’aspetto umano era sparito, e le rocce massicce rivelavano una grotta in cui il mare entrava e usciva creando un tuono cavernoso e risonante. Sembrava che in quel suono ci fosse una parola, una sillaba. Mentre procedevano, gli echi si attutirono e la sillaba giunse più chiara; perciò Arren chiese: — C’è una voce, nella grotta?