— Dove vengono a te, Pannocchia? Dove sei, tu?
— Tra i mondi.
— Ma non è né vita né morte. Che cos’è la vita, Pannocchia?
— Potere.
— Che cos’è l’amore?
— Potere — ripeté pesantemente il cieco, aggobbendo le spalle.
— Che cos’è la luce?
— Tenebra!
— Qual è il tuo nome?
— Io non ho nome.
— Tutti, in questa terra, portano il loro vero nome.
— Dimmi il tuo, allora!
— Io mi chiamo Ged. E tu?
Il cieco esitò e disse: — Pannocchia.
— Quello era il tuo nome d’uso, non il tuo vero nome. Dov’è il tuo nome? Dov’è la tua verità? L’hai lasciata a Paln quando sei morto? Hai dimenticato molte cose, Signore delle Due Terre. Hai dimenticato la luce, e l’amore, e il tuo nome.
— Adesso ho il tuo nome e ho potere su di te, Ged l’arcimago… Ged, che eri arcimago quand’eri vivo!
— Il mio nome non ti serve a nulla — disse Ged. — Tu non hai nessun potere su di me. Io sono vivo; il mio corpo giace sulla spiaggia di Selidor, sotto il sole, sulla terra che gira sul suo asse. E quando quel corpo morirà, io sarò qui: ma solo nel nome, nel nome solo, nell’ombra. Non capisci? Non hai mai capito, tu che hai evocato tante ombre dal regno dei morti, che hai chiamato tutte le schiere dei defunti, e perfino il sovrano Erreth-Akbe, il più sapiente di tutti noi? Non hai capito che perfino lui è soltanto un’ombra e un nome? La sua morte non aveva sminuito la vita. E non aveva sminuito lui. Lui è là… là, non qui! Qui non c’è nulla, soltanto polvere e ombre. Là, lui è la terra e la luce del sole, le foglie degli alberi, il volo dell’aquila. È vivo. E tutti coloro che sono morti, vivono: rinascono e non hanno fine, e non ci sarà mai una fine. Per tutti, eccettuato te. Perché tu non volevi la morte. Hai perso la morte, hai perso la vita, per salvare te stesso. Te stesso! Il tuo io immortale! Che cos’è? Chi sei?
— Io sono me stesso. Il mio corpo non imputridirà e non morirà…
— Un corpo vivo soffre, Pannocchia; un corpo vivo invecchia e muore. La morte è il prezzo che paghiamo per la nostra vita e per la vita intera.
— Io non lo pago! Io non posso morire e in quello stesso momento rivivere! Io non posso venire ucciso: sono immortale. Soltanto io sono me stesso in eterno.
— Chi sei, dunque?
— L’Immortale.
— Di’ il tuo nome.
— Il Re.
— Di’ il mio nome. Te l’ho detto soltanto un minuto fa. Di’ il mio nome!
— Tu non sei reale. Tu non hai nome. Io solo esisto.
— Tu esisti: senza nome, senza forma. Non puoi vedere la luce del giorno; non puoi vedere l’oscurità. Hai venduto la verde terra e il sole e le stelle per salvare te stesso. Ma non hai un io. Tutto ciò che hai venduto, quello eri tu. Hai dato tutto per nulla. E perciò adesso cerchi di attirare il mondo a te, tutta la luce e la vita che hai perduto, per colmare il tuo nulla. Ma non è possibile colmarlo. Neppure tutti i canti della terra, neppure tutte le stelle del cielo potrebbero colmare il tuo vuoto.
La voce di Ged aveva un suono ferreo, nella fredda valle ai piedi delle montagne; e il cieco si ritrasse da lui, timoroso. Levò la faccia, e la fioca luce delle stelle l’investì: sembrava che piangesse, ma non aveva lacrime poiché non aveva occhi. La sua bocca si apriva e si chiudeva, piena di tenebra, ma non ne usciva neppure una parola: soltanto un gemito. Infine disse una parola, formandola appena con le labbra contorte, e quella parola era «Vita».
— Ti darei la vita se potessi, Pannocchia. Ma non posso. Tu sei morto. Ma posso darti la morte.
— No! — urlò il cieco, e poi disse «No, no» e si accovacciò singhiozzando, sebbene le sue guance fossero asciutte come il letto sassoso del fiume dove scorreva soltanto la notte, non l’acqua. — Non puoi. Nessuno potrà mai liberarmi. Ho aperto la porta tra i mondi e non posso chiuderla. Nessuno può chiuderla. Non verrà mai richiusa. Mi attira, mi attira. Devo ritornare a quella porta. Devo varcarla e ritornare qui, nella polvere, nel freddo e nel silenzio. Mi risucchia. Non posso lasciarla. Non posso chiuderla. Risucchierà tutta la luce del mondo, alla fine. Tutti i fiumi diventeranno come il Fiume Inaridito. Non esiste un potere che possa chiudere la porta aperta da me!
Era stranissimo, il miscuglio di disperazione e di orgoglio vendicativo, di terrore e di vanità nelle sue parole e nella sua voce.
Ged disse soltanto: — Dov’è?
— Da quella parte. Non lontano. Puoi andarci. Ma non puoi far nulla. Non puoi chiuderla. Anche se esaurissi tutto il tuo potere in quell’atto, non basterebbe. Non c’è nulla che possa bastare.
— Forse — replicò Ged. — Sebbene tu abbia scelto la disperazione, ricorda che noi non l’abbiamo ancora fatto. Portaci là.
Il cieco levò il volto, in cui lottavano visibilmente la paura e l’odio. L’odio trionfò. — No — disse.
A quella risposta, Arren si fece avanti e disse: — Lo farai.
Il cieco restò immoto e muto. Il freddo silenzio e l’oscurità del regno dei morti li circondavano, circondavano le loro parole.
— Tu chi sei?
— Il mio nome e Lebannen.
Ged parlò: — Tu che ti proclami Re, non sai chi è costui?
Pannocchia restò di nuovo in silenzio. Poi disse, ansimando un poco: — Ma è morto… Siete morti. Non potete tornare indietro. Non esiste una via d’uscita. Siete prigionieri qui! — Mentre parlava, il barlume di luce l’abbandonò; e l’udirono voltarsi nella tenebra e allontanarsi da loro, in fretta. — Fammi luce, mio signore! — gridò Arren, e Ged levò il bastone alto sopra la testa, e la bianca luce squarciò quella vecchia tenebra piena di pietre e di ombre, tra le quali l’alta figura curva del cieco si affrettava, schivando gli ostacoli, risalendo il letto del fiume con una strana andatura senza esitazioni. Arren l’inseguì, con la spaga in pugno; e dietro di lui veniva Ged.
Ben presto Arren distanziò il suo compagno; la luce era molto fioca, interrotta dai macigni e dalle tortuosità del letto del fiume, ma il suono dell’andare di Pannocchia e il senso della sua presenza erano una guida sufficiente. Arren si avvicinò lentamente, poiché il terreno diventava più scosceso. Stavano salendo in una gola ripida, intasata dalle pietre; il Fiume Inaridito, restringendosi verso la sorgente, si snodava tra rive a strapiombo. I sassi tintinnavano rotolando sotto i loro piedi e sotto le loro mani, perché dovevano inerpicarsi. Arren sentì le rive restringersi, e con un balzo raggiunse Pannocchia e gli afferrò il braccio, trattenendolo. Erano davanti a una specie di bacino di roccia, largo poco più di un braccio e mezzo, che avrebbe potuto essere una polla se mai ci fosse stata l’acqua; e sopra quello c’era una caotica parete di roccia e scorie. In quella parete c’era una breccia nera, la sorgente del Fiume Inaridito.
Pannocchia non tentò di svincolarsi. Stava immobile, mentre la luce di Ged che si andava avvicinando si ravvivava sulla sua faccia priva di occhi. L’aveva rivolta verso Arren. — Il luogo è questo — disse infine, e una specie di sorriso si formò sulle sue labbra. — Questo è il luogo che cerchi. Lo vedi? Là puoi rinascere. Basta che tu mi segua. Vivrai immortale. Saremo re insieme.