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Ci fu un rumore di metallo soffregato contro il metallo, il mormorio raschiante di spade incrociate. Il drago color ferro si era sollevato sulle zampe arcuate. Si mosse e varcò il ruscelletto, con uno smorzato suono sibilante mentre trascinava il lungo corpo sulla sabbia. Arren vide le grinze alle giunture delle spalle, la corazza sui fianchi sfregiata come l’armatura di Erreth-Akbe, e i lunghi denti ingialliti e smussati. In tutto questo, e nei suoi movimenti pesanti e sicuri, e nella sua calma profonda e spaventosa, Arren vide i segni della vecchiaia: un’antichità immensa, di anni incalcolabili. Perciò, quando il drago si fermò a pochi passi dal punto dove giaceva Ged, e Arren si alzò, mettendosi tra i due, chiese, in hardese perché non conosceva la Vecchia Lingua: — Tu sei Kalessin?

Il drago non disse una parola, ma parve sorridere. Poi, abbassando l’immane testa e protendendo il collo, guardò Ged e ne pronunciò il nome.

La sua voce era immensa, e bassa, e aveva l’odore della forgia di un fabbro.

Chiamò ancora, e ancora: e la terza volta Ged aprì gli occhi. Dopo un po’ tentò di levarsi a sedere, ma non ci riuscì. Arren gli s’inginocchiò accanto e lo sostenne. Poi Ged parlò. — Kalessin — disse — senvanissai’n ar Roke! - Dopo che ebbe parlato, non gli rimase più forza: appoggiò la testa sulla spalla di Arren e chiuse gli occhi.

Il drago non rispose. Si accovacciò, come prima, senza muoversi. La nebbia stava ritornando, e offuscava il sole che discendeva verso il mare.

Arren si vestì e avviluppò Ged nel mantello. La marea, che si era ritratta lontano, stava risalendo, e il ragazzo pensò di portare il suo compagno verso il terreno più asciutto, sulle dune, ora che si sentiva ritornare le forze.

Ma quando si chinò per sollevare Ged, il drago protese un’enorme zampa corazzata, quasi sfiorandolo. Gli artigli erano quattro, con uno sperone dietro, come la zampa di un gallo: ma quelli erano speroni d’acciaio, e lunghi come lame di falce.

— Sobriost - disse il drago, e fu come un vento di gennaio che spirasse tra le canne gelate.

— Lascia in pace il mio signore. Ci ha salvati tutti, e così facendo ha esaurito le forze e forse anche la vita. Lascialo stare!

Arren parlò rabbiosamente, in tono di comando. Per troppo tempo si era lasciato intimidire e impaurire, e ne aveva abbastanza della paura, se ne era stancato e non voleva più saperne. Era irritato col drago, per la sua forza bruta e per le sue dimensioni enormi, per il suo ingiusto vantaggio. Lui aveva visto la morte, aveva assaporato la morte, e nessuna minaccia aveva più potere su di lui. Il vecchio drago, Kalessin, lo guardò con un lungo occhio dorato e terribile. C’erano eoni ed eoni, nelle profondità di quell’occhio: e c’era il mattino del mondo. Sebbene Arren non lo guardasse, sentiva che lo stava scrutando con profonda e blanda ilarità.

— Arw sobriost - disse il drago, e le rugginose narici si dilatarono, lasciando scintillare il fuoco coperto e represso che ardeva all’interno.

Arren teneva il braccio sotto le spalle di Ged, poiché stava per sollevarlo quando il movimento di Kalessin l’aveva arrestato; e adesso sentì la testa del mago girarsi leggermente e udì la sua voce: — Vuol dire: monta qui.

Per un po’, Arren non si mosse. Era una follia. Ma davanti a lui c’era la grande zampa unghiuta, a un passo; e sopra la zampa, l’incavo della giuntura del gomito; e più sopra, la spalla sporgente e la muscolatura dell’ala che spuntava dalla scapola: quattro gradini, una scala. E davanti alle ali e alla prima spina di ferro della cresta dorsale, nella cavità del collo c’era un punto dove poteva sedere a cavalcioni un uomo, o due uomini… se erano impazziti, disperati e disposti a qualunque follia.

— Monta! — disse Kalessin nel linguaggio della Creazione.

E così Arren si alzò e aiutò il suo compagno a rimettersi in piedi. Ged, con la testa eretta e guidato dalle braccia di Arren, salì quegli strani scalini. Si sedettero a cavalcioni, nella cavità corazzata del collo del drago: Arren dietro, pronto a sostenere Ged se fosse stato necessario. Si sentirono pervadere da un calore gradito, come il calore del sole, dove toccavano la pelle del drago: la vita ardeva come un fuoco sotto la corazza di ferro.

Arren vide che avevano dimenticato il bastone di tasso del mago semisepolto nella sabbia: il mare avanzava furtivo ed era sul punto di appropriarsene. Fece per scendere e per andare a prenderlo, ma Ged lo trattenne. — Lascialo. Ho esaurito tutta la magia a quella fonte inaridita, Lebannen. Ora non sono più un mago.

Kalessin girò la testa e li guardò di sottecchi: l’antica ilarità brillava nel suo occhio. Nessuno sapeva se Kalessin era maschio o femmina; nessuno sapeva cosa pensasse. Lentamente, le ali si sollevarono e si spiegarono. Non erano d’oro come quelle di Orm Embar ma rosse, rossocupe, scure come la ruggine o il sangue o la seta cremisi di Lorbanery. Il drago alzò le ali delicatamente, per non disarcionare i suoi minuscoli passeggeri. Delicatamente si raccolse nello slancio delle grandi anche, e balzò nell’aria come un gatto, e le ali batterono e li portarono al di sopra della nebbia che aleggiava su Selidor.

Remigando con quelle ali cremisi nell’aria della sera, Kalessin volteggiò verso il mare aperto, si voltò verso l’oriente, e s’involò.

Nei giorni della piena estate, sull’isola di Ully un grande drago venne visto volare basso, e in seguito fu avvistato a Usidero e nella parte settentrionale di Ontuego. Sebbene i draghi siano temuti nello Stretto Occidentale, dove la gente li conosce troppo bene, dopo che quello fu passato oltre e gli abitanti dei villaggi furono usciti dai nascondigli, coloro che l’avevano visto dissero: — Non tutti i draghi sono morti come credevamo. Forse anche non tutti i maghi sono morti. Certo, c’era un grande splendore in quel volo: forse era l’Antichissimo.

Nessuno vide dove Kalessin era atterrato. In quelle isole lontane ci sono foreste e colline selvagge, dove gli uomini vanno raramente e dove perfino la discesa di un drago può passare inosservata.

Ma nelle Novanta Isole ci furono grida e tumulti. Gli uomini remarono verso occidente, fra le isolette, gridando: — Nascondetevi! Nascondetevi! Il drago di Pendor ha violato la sua parola! L’arcimago è perito, e il drago è venuto a divorarci!

Senza atterrare, senza guardare in basso, il grande rettile color ferro sorvolò le isolette e le cittadine e le fattorie, senza degnarle neppure di un rutto di fuoco. Così sorvolò Geath e Serd, e attraversò gli stretti del Mare Interno, e giunse in vista di Roke.

Mai, a memoria d’uomo, e quasi neppure nella memoria delle leggende, un drago aveva sfidato le mura visibili e invisibili della ben difesa isola. Tuttavia quello non esitò, ma continuò a volare sulle ali poderose, sopra la spiaggia occidentale di Roke, sopra i villaggi e i campi, sulle verdi colline che si ergevano dietro Città Thwil. E là, infine, discese dolcemente verso terra, alzò le rosse ali e le ripiegò, e si accovacciò sulla sommità del Colle di Roke.

I ragazzi uscirono di corsa dalla Grande Casa. Niente avrebbe potuto trattenerli. Ma nonostante la loro giovinezza furono più lenti dei loro Maestri, e giunsero per secondi al Colle. Quando vi arrivarono, c’era il Maestro degli Schemi, giunto dal Bosco Immanente, con i capelli biondi che splendevano nel sole. Con lui c’era il Maestro delle Metamorfosi, che era ritornato due notti prima, nella forma di una grande procellaria, con le ali storpiate, e sfinito: era rimasto imprigionato a lungo in quella forma dai suoi incantesimi, e non aveva potuto riacquistare il suo aspetto fino a quando era giunto nel Bosco, la notte in cui l’Equilibrio era stato ristabilito e ciò che era infranto si era reintegrato. L’Evocatore, che si era alzato dal letto solo il giorno innanzi, sparuto e fragile, era accorso; e accanto a lui stava il Portinaio. E c’erano gli altri Maestri dell’isola dei Saggi.