Выбрать главу

«Va bene, lasciamo perdere, incidente chiuso, d’accordo? Vedi magari se puoi metterti addosso qualcosa di pulito…» Ciò detto, si distolse dalla famiglia e accese il grande schermo a parete, sintonizzandosi sulla finale del campionato di pallacanestro a gravità zero. Aveva urgente bisogno di pensare a qualcosa di assolutamente diverso dai mutanti…

La casa era buia, punteggiata appena qua e là dal tenue chiarore azzurroverde, grato agli occhi mutanti, delle minuscole lampade di sicurezza. Un canto gutturale, proveniente dai fonodinamici di rame tubulari piazzati in soggiorno, accolse Melanie. Era la preghiera della sopportazione tratta dal terzo libro delle Cronache, una delle invocazioni preferite di suo padre. Il resto della casa attendeva silenzioso. L’intero mondo esterno pareva remoto. Di più: cancellato.

«Presumo che tu sia in grado di fornire una spiegazione, vero?» risuonò gelida la voce di James Ryton dopo che ebbe levato lo sguardo sulla sua scarmigliata figlia. Melanie avrebbe voluto farsi piccola piccola, fino a scomparire. Era inutile attendersi una parola di conforto da quell’uomo. Se almeno fosse potuta rientrare insieme a Kelly…

«Allora? Che cos’hai da dire, signorina?»

Melanie cercò con lo sguardo sua madre, che, raggomitolata sul divano come un gatto, le rivolse un sorriso d’incoraggiamento. La ragazza trasse un respiro profondo, e si lanciò.

«Due ragazze mi hanno assalito all’improvviso mentre ero nei bagni. Una era armata di coltello. Aveva bevuto. Voleva colpirmi.»

«Maledetti normali! Non saranno contenti finché non ci avranno sterminati dal primo all’ultimo!»

«James!» lo richiamò Sue Li lanciandogli un’occhiataccia. Quindi si rivolse a Melanie. «Vai avanti, cara. Dopo che cos’è successo?»

«È arrivata Kelly McLeod e mi ha aiutato a respingerle.»

«La figlia di McLeod ti ha aiutato? Una nonmutante?» domandò Ryton in tono di evidente sorpresa.

«Be’, sì.»

«Com’è che conosci quella ragazza?» le chiese dolcemente Sue Li.

«Ci si vede ogni tanto a scuola.»

Melanie osservava suo padre camminare inferocito avanti e indietro sul tappeto azzurro. Un’espressione sofferta gli incupiva il volto. Una vena gli pulsava sulla fronte, indubitabile brutto segno.

«E cosa stavi facendo, per averle indotte ad aggredirti?»

«Niente. Mi pettinavo.»

«Eri sola?»

«Sì.»

«Innanzitutto non capisco per quale motivo tu debba frequentare un locale di nonmutanti. E poi dov’era Germyn? Credevo che stasera saresti uscita insieme a lei.»

«Se l’è filata non appena è cominciato il casino. Come al solito.»

Melanie scorse la bocca di sua madre contrarsi in quello che avrebbe potuto essere un sorriso, immediatamente dissimulato. Papà, invece, non parve trovarci nulla di divertente.

«Andarsene in giro da soli equivale a fare da bersaglio», dichiarò.

«Quindi sarebbe tutta colpa mia?» reagì Melanie stizzita. «L’ho chiesto io di farmi infilzare con un coltello?»

«Non usare quel tono con me, ragazza.»

Al che la mamma pensò bene d’intervenire. «James, ora sei troppo alterato per discutere di questa faccenda. Non sarebbe meglio rimandare a più tardi?»

«È inutile che cerchi di calmarmi, Sue Li. Le mie opinioni circa il socializzare coi normali le conosci benissimo. Troppo rischioso.»

«Sì, certo, però credo che in questo caso tu stia reagendo in modo eccessivo. Insomma, James, non siamo più negli anni Novanta. E non vedo nulla di pericoloso nel fatto che Melanie trascorra un poco del suo tempo insieme ai normali.» Fece un attimo di pausa, quindi proseguì. «Tutti i ragazzi frequentano l’Hardwired. Melanie non c’è andata di sicuro in cerca di guai. E se ogni tanto capita che qualcuno alzi un po’ troppo il gomito e diventi aggressivo, be’, non possiamo certo farne una colpa a nostra figlia. Secondo me sarebbe potuta andare molto peggio.»

Immobile, imperturbabile, languidamente avvolta nel suo maglione rossofuoco, la mamma diede a Melanie l’impressione di un piccolo Buddha in versione femminile. Chissà che in quel preciso momento non stesse cercando di influenzare in meglio gli accesi umori che surriscaldavano l’ambiente… Non sarebbe stata certo la prima volta che Sue Li poneva fine a una disputa casalinga facendo sottilmente uso delle sue doti telepatiche.

«Sue Li, non ho la minima intenzione di farmi distrarre dalle tue chiacchiere», replicò Ryton. «Il continuo coinvolgimento coi normali rappresenta un grave pericolo, per i nostri figli. È una situazione intollerabile!»

«Non vedo proprio come potrei fare altrimenti», intervenne Melanie. «Non siamo abbastanza per metter su una scuola riservata ai mutanti, e ad ogni modo non posso certo passare la vita intera standomene alla larga dai normali.»

«Già, ma quanto meno potresti usare maggior discernimento nello scegliere dove andare e che cosa fare», la rimbeccò suo padre con voce dura. «E tanto per cominciare ti proibisco di rivedere quella tale McLeod.»

«Ma papà», insisté Melanie con labbra tremanti, «Kelly mi ha aiutato. E vuole essermi amica.»

«Dentro il clan ne hai già quante ne vuoi, di amicizie,»

«Eh sì, figuriamoci. E invece lo sai benissimo che nel clan non c’è nessuno che desideri veramente entrare in amicizia con me. Oh, certo, sono tutti molto carini, come no, però mi trattano come se fossi una deficiente, invece che semplicemente una neutra. E tu sei uguale agli altri.»

Una volta tanto, suo padre non seppe che cosa replicare. La fissò come se avesse di fronte un’estranea. Melanie si rendeva conto che avrebbe fatto molto meglio a piantarla lì e a ritirarsi nella tranquilla intimità della sua stanza, ma non riuscì a trattenersi. Le parole che per anni aveva soffocato le scaturirono fuori inarrestabilmente.

«A tutti quanti, faccio schifo!» gridò. «A scuola mi danno addosso perché sono una mutante. A casa e alle riunioni del clan mi guardate come se avessi tre teste. Oh, lo so, voi credete che non me ne accorga, ma vi ingannate. E so pure quello che pensate: povera ragazza, neutra com’è chi vuoi che se la pigli? Dentro il clan non la sposa nessuno di sicuro. Guarda un po’ se doveva capitare proprio a noi, questo guaio di avere una figlia disfunzionale!…»

«Ma no, Melanie, ti sbagli…» La voce della mamma, smarrita ogni imperturbabilità, suonava ora colma d’angoscia.

Melanie si volse a fronteggiarla. «Ah, davvero? Eppure mio padre è talmente impegnato a rimproverarmi di ogni cosa che faccio da non essersi nemmeno reso conto che poco fa qualcuno è quasi riuscito a pugnalarmi. Certo, capisco, fosse successo sul serio vi avrebbe reso tutto molto più facile, vero?» E tacque, soddisfatta, vedendo sua madre sbiancare in volto e suo padre irrigidirsi dolorosamente per la brutale trafittura di quell’insinuazione.

«Melanie, tu non sai che cosa stai dicendo. Come puoi parlare in questo modo?» Nell’udire la voce di sua madre rotta dall’emozione, Melanie avvertì una punta di rammarico. Non aveva avuto davvero intenzione di ferirla, ma in fondo si era limitata a dire la verità. Non sarebbe stato un sollievo per tutti, se lei si fosse tolta dalla circolazione?

«Stai dicendo un mucchio di sciocchezze, di puerili assurdità», dichiarò suo padre scuotendo la testa, in un tono che non ammetteva repliche. «All’interno del clan non c’è nessuno che non ti voglia bene e non ti tratti nel migliore dei modi. Quindi devi smetterla di sentirti assurdamente esclusa e perseguitata.»

Per qualche istante rimasero lì tutti e tre a fissarsi in un gelido silenzio. Poi la mamma si alzò.

«È tardi. Siamo stanchi. Andiamocene a letto, e vedrete che domani ci apparirà tutto sotto una luce più rosea.»