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Melanie si sentì dispiaciuta per loro. Non sopportavano di sentirsi dire la verità. Lei, invece, era capace di affrontarla a viso aperto. Non aveva altra scelta.

«Buonanotte, mamma. Buonanotte, papà.»

Senza aggiungere altro, volse loro le spalle e se ne andò in camera sua. Appena richiusa la porta inibì il sensore all’infrarosso prima di attivare automaticamente l’illuminazione con la sua presenza. Preferiva rimanere al buio.

Seduta sul letto, tenendosi le ginocchia strette al petto, Melanie ripercorse ancora una volta gli avvenimenti della serata. Lo scontro allo Hardwired. La conversazione con i suoi genitori. Non poteva continuare a vivere in quel modo. Non poteva e non voleva.

Bill McLeod si rigirò fra le coperte per posare lo sguardo sull’orologio a muro, il quale ricambiò quell’attenzione fornendogli l’ora col soffuso bagliore delle sue cifre color ambra: le quattro del mattino. Udiva, accanto a sé, il profondo e regolare respiro di Joanna. Avrebbe desiderato poterla imitare, ma ogni volta che chiudeva gli occhi tornavano a riecheggiargli in mente le parole di Kelly, e addio sonno.

Ho sempre più spesso l’impressione che in questa famiglia trattiate anche me come una mutante.

Be’, si disse, Kelly aveva buttato là quella frase spinta dall’ira, in un impeto di ribellione contro il suo vecchio e le sue ottuse osservazioni. Probabilmente non lo pensava davvero.

E se invece avesse detto sul serio? Sembrava così distante, da qualche tempo, così estranea alla famiglia… Cosa poteva aver fatto o non fatto, lui, per indurla ad allontanarsi? Oh, che diavolo, presto o tardi succedeva a tutti i ragazzi di architettare una fuga dal nido. Imprescindibile rito di passaggio. Anche lui, a quattordici anni, era rimasto fuori una notte intera a camminare sulla spiaggia. E suo padre gliele aveva date di santa ragione, quand’era tornato a casa. Poi, crescendo, aveva imparato a fare a meno delle pensose passeggiate lungo spiagge solitarie. Specialmente in aviazione. E adesso, inchiodato com’era a un lavoro da tavolino, di tempo per estraniarsi gliene avanzava decisamente molto poco. Troppi contratti.

Joanna s’impegnava in modo encomiabile, coi ragazzi. Quanto a lui, cercava di fare del suo meglio per condividerne gioie e dolori, per essere attento e disponibile a ogni loro necessità, per astenersi dal far pesare il proprio giudizio ogni qual volta riteneva che i suoi figli avessero bisogno di imparare da sé…

Eh, già: in questa occasione i buoni propositi erano andati davvero a farsi benedire. Serrò con violenza i pugni in istintiva quanto vana reazione al suo brutale comportamento di poche ore prima. McLeod lo sapeva benissimo che avrebbe dovuto essere più tollerante nei confronti dei mutanti. Ma gli facevano accapponare la pelle. Anche in servizio se ne era sempre tenuto alla larga. A causa loro sua figlia aveva rischiato di essere malmenata. O peggio. E adesso si era messa persino a filare con quel giovanotto…

Ho sempre più spesso l’impressione che in questa famiglia trattiate anche me come una mutante.

«Bill, se non la smetti di rigirarti non mi fai dormire.» La voce di Joanna, impastata di sonno, non nascondeva l’irritazione. «Che cosa stai rimuginando? Kelly?»

«Già.»

«Devi aver pazienza. È l’età, lo sai.»

«Meno male che diciassette anni vengono una volta sola.»

«Amen.» Morbida e calda, nel buio, andò a rannicchiarsi addosso a lui. «E cos’è, in particolare, che ti rode?»

«Quella sparata sul fatto di sentirsi trattata come una mutante. Secondo te diceva sul serio?»

Joanna ridacchiò. «Ah, in quel momento senza dubbio. Evidentemente stava cercando di scombussolarti. E a quanto pare c’è riuscita.»

«Ecco, in effetti sembra scontenta. È chiaro che me ne dispiace.»

«Non credo proprio che sia più scontenta di quanto eravamo io e te alla sua età.»

«Be’, in fondo non le facciamo mancare nulla.»

«Bill, la devi far finita di preoccuparti per questa faccenda. Ti assicuro che sei un padre favoloso. Cerca solo, per un po’, di ammorbidirti sulla questione dei mutanti. Altrimenti le dai un pretesto per ribellarsi. Sono sicura che alla fine questa mania le passerà. Te lo ripeto: devi solo aver pazienza.»

«Sei tu l’esperta in materia, mica io.»

«Ascolta, mi è venuta un’idea che in quattro e quattr’otto dovrebbe alleviarti la sindrome ansiosa…» E incominciò a baciargli la schiena, poi passò davanti e gli accarezzò il petto, quindi prese pian piano a puntare verso il basso.

«Chissà perché, ma ho la netta sensazione di esser trattato come un oggetto sessuale…»

Nonostante il chiarore dell’orologio, era troppo buio perché gli riuscisse di vedere il sorriso di lei. Ma lo avvertì nella sua voce. «Smettila di bofonchiare. Stai giù e goditela.»

4

Scintillando argentea lungo le sue guide, la porta dell’ascensore si chiuse con un sussurro pneumatico.

«Che piano, prego?» compitò con elettronica artificiosità la voce della cabina.

«Quindicesimo», rispose Andie laconica. Detestava dover parlare coi meccanismi. L’ascensore salì dolcemente, in silenzio. Approfittando dell’agio che le offriva la cabina vuota per abbandonarsi a una voluttuosa stiracchiata, Andie osservò il riflesso grottescamente deformato che le restituiva la brunita superficie della porta, e con futile curiosità si chiese che effetto avrebbe potuto fare vivere con uno spropositato collo alla Modigliani sormontato da un faccione stile Picasso con tutti e due gli occhi dallo stesso lato del naso. Più o meno il modo in cui si era immaginata i mutanti quando ne aveva sentito parlare da bambina, prima che incominciassero apertamente a frequentare le scuole, a mostrarsi per strada, a sedere in Parlamento.

L’ascensore si fermò, e la porta si aprì sibilando per far entrare Karim Fuentes, primo assistente del senatore Craddick, e Carter Pierce, notorio manutengolo politicamente con le mani in pasta nei superconduttori coreani, nell’ingegneria genetica brasiliana e nelle plastileghe francesi.

«Andie… ti trovo bene», la salutò Karim regalandole uno di quei suoi smaglianti sorrisi. «Conosci Carter?»

«Ci siamo già visti.» Sebbene preferisse non confessarlo neppure a se stessa, le piacevano la scura bellezza e il fascino disinvolto di Karim. Ma gli intrallazzi politici di Pierce, al pari dei suoi polsini doppi in pura seta, la lasciavano del tutto indifferente. E comunque gli uomini biondi non le erano mai andati a genio. Per parte sua, Pierce evitava l’ufficio della Jacobsen con una cautela che aveva quasi del patologico. «Come va?»

«Forse dovremmo essere noi, a domandarglielo», replicò Pierce in tono insinuante, mentre si raddrizzava la cravatta col discutibile ausilio della propria immagine riflessa.

Per un attimo Andie accarezzò l’idea di scendere immediatamente dall’ascensore. Ma la poco invitante prospettiva di arrancare a piedi su per i restanti otto piani la dissuase. Decise di tener duro. Avrebbe sempre potuto fargliela scontare, a quel Pierce.

«E cioè?»

Pierce le rivolse un sorriso malizioso. «Be’, abbiamo sentito di quella lettera esplosiva. E non è nemmeno la prima, vero? Non è che questo genere di avvenimenti la renda per caso un pochino nervosa?… Insomma, lavorare per Eleanor Jacobsen significa stare a fianco di un bersaglio, non è d’accordo?»

Andie si strinse nelle spalle. «Ritengo che sia un privilegio, lavorare per una persona come la senatrice Jacobsen. Tutti gli incarichi pubblici possono essere pericolosi, Carter. Chiunque può divenire un bersaglio. Anche uno come lei.» Osservandogli la cravatta gialla striata di fili metallici, soppesò con gusto l’eventualità di strangolarcelo.

«Brrr…» fece lui. Poi, dopo una breve esitazione: «Signorina Greenberg, io sto parlando sul serio. Mi pare evidente che lavorare per certe persone è particolarmente pericoloso».