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«Di amore?»

«Credo di sì.» Usare quella parola in relazione al clan, o anche solo sentirla pronunciare, lo metteva a disagio. Non era affatto sicuro di amare gli altri membri del clan, né che loro amassero lui. Ma in fin dei conti quale importanza potevano avere i sentimenti personali, in una situazione in cui non rimaneva loro altra scelta che serrarsi l’un l’altro facendo causa comune?

«Non mi pare poi un fatto così tremendo», osservò Kelly. «Anzi, direi che è una cosa molto bella.» Ebbe un attimo di esitazione. «Non ti fa sentire speciale?»

Speciale? Michael scosse la testa. «Un po’ strano, piuttosto.»

Kelly gli afferrò una spalla, inducendolo a girarsi verso di lei. «Ascolta, Michael, io è tutta la vita che mi sento un’estranea. Un’intrusa. Non credo di aver mai passato più di un anno nella stessa scuola. A lavorare in aviazione, uno è di continuo in movimento. E l’idea di avere attorno un gruppo di persone che conosci bene, che ti amano e comunicano con te e partecipano alla tua esistenza, mi sembra davvero meravigliosa.»

«Questo perché non hai mai provato.»

«Può darsi.» A giudicare dal tono della replica sembrava offesa, e gli dispiacque di averle parlato a quel modo, ma era talmente difficile spiegare che cosa si provava ad essere un mutante… Gli era capitato di incontrare gente che si metteva a osservare i mutanti con una sorta di perplesso stupore, come fossero bestie rare. Ciò gli provocava un disagio profondo. Non voleva che anche lei lo trattasse a quel modo. L’afferrò con gesto impetuoso fra le braccia, tirandosela vicino.

«A nessuno posso parlarne nel modo in cui ne parlo con te», le bisbigliò appassionatamente. «A nessuno, nel clan o fuori dal clan, tranne te.»

«Davvero?»

Le contornò teneramente col palmo della mano un lato del volto, accarezzandole la guancia morbida. «Forse a te i convegni del clan sembreranno una bella cosa, ma in un certo senso sono come vivere in una piccola città, dove tutti ti conoscono ma nessuno ti comprende. Non c’è intimità. Non è che mi facciano sentire meno solo.» Poggiò la fronte su quella di lei. «Ma quando sono insieme a te, la solitudine scompare. Quando ero a Washington ti pensavo di continuo. Immaginavo di fare l’amore con te. E mi chiedevo se anche tu lo volessi.»

«Anch’io, sai, non pensavo ad altro», gli confessò. «E non vedevo l’ora che tornassi a casa.»

Le strofinò un seno col viso, prendendo il capezzolo fra le labbra e stuzzicandolo con la lingua finché non si fece eretto. Kelly gemette dolcemente e portò la mano in basso, fra le gambe di Michael. In un attimo gli venne duro, calda presenza palpitante contro il palmo di lei. Egli inspirò profondamente, lasciandosi poi andare a un lungo sospiro.

«Ti va di rifarlo?» gli domandò, in un sussurro così lieve che Michael riuscì appena a udirla.

«Tu che ne dici?»

6

Attraversato vivacemente l’atrio deserto del Cesar Park Hotel, Andie spiattellò la propria identicarta davanti al sensore dell’accesso principale onde ottenerne l’apertura. I battenti scorsero di lato, e lei uscì sulla strada. Aveva giusto il tempo per una visitina in spiaggia, prima dell’incontro delle dieci.

L’accolse una città sorprendentemente tranquilla. Andie sapeva che le epurazioni del 1997 avevano portato fra l’altro alla scomparsa delle favelas, quell’accozzaglia eterogenea di casupole aggrappate sui fianchi delle colline. A dispetto delle indignate proteste levatesi dalla pubblica opinione, il nuovo regime era stato sbrigativo e brutale. E dov’erano, adesso, i favelitas? Andie li immaginò al lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero del fumigante interno. Ammesso che fossero ancora vivi.

Si era aspettata di incontrare errabondi gruppi di festaioli reduci dalle discoteche aperte tutta la notte, coppie d’innamorati ancora a passeggio mano nella mano, con gli occhi pieni di stelle, lungo la spiaggia. Ma probabilmente si trattava di situazioni infrequenti, durante la settimana. Si era imbevuta delle leggende di Rio. Adesso era giunto il momento di conoscere la verità.

Attraversò con gran cautela l’affollatissima Avenida Atlantica, tenendo conto degli avvertimenti dell’ipnoinnesto circa l’imprevedibilità degli automobilisti locali. Giunta sul pavimento a mosaico delimitante la spiaggia si tolse le scarpe, e immerse i piedi nella bianca sabbia di Ipanema. Schiere su schiere di onde verde-azzurre si accavallavano verso di lei, andandosi a frangere sulla battigia. Alcuni irriducibili amanti della tintarella sedevano sulle sdraio, fissando il mare. Ma la spiaggia era in gran parte deserta. Si incamminò sulla sabbia rammaricandosi di non avere preso un cappello. Nonostante l’ora, il sole picchiava forte. Sebbene avesse bevuto un bicchiere abbondante di succo di mango appena prima di uscire, incominciò a sentirsi assetata. Aveva la bocca asciutta, la lingua impastata. Si figurò un bicchierone d’acqua tutto imperlato di vapore condensato, e pensò con bramosia a un bel gelato. Lungo la spiaggia, sulla sua sinistra, vide avvicinarsi un venditore di gelati alla frutta, un abbronzato ragazzo sui quattordici anni con occhiali scuri e jeans bianchi, e decise di cedere alla tentazione. Mentre contava il resto, il ragazzo si sollevò gli occhiali fin sopra la testa, e quando levò lo sguardo su di lei, Andie rimase sbalordita nel vedere un paio di occhi d’oro, lucenti come monete, appuntarsi nei suoi. Il denaro quasi le sfuggì di mano. Il venditore sorrise. «Obligado», disse, e proseguì il suo giro per la spiaggia, eclissandosi ben presto.

Possibile che se li fosse immaginati? Si mise in bocca la stecca gelata. Era appiccicosa e dolciastra. A dire il vero non le andava neanche un poco. Individuato un cestino per rifiuti, si sbarazzò del nauseante pastrocchio. Ma quel ragazzo, aveva davvero gli occhi dorati?

Perplessa, lasciò la spiaggia, si rinfilò le scarpe e traversò la strada, schivando agilmente torme di tassisti psicopatici. Passò davanti a parecchi caffè con le saracinesche abbassate e le sedie rovesciate sopra i tavolini. Dov’era andata a finire quella leggendaria cultura edonistica? Anche i negozi erano chiusi. All’incrocio con Avenida Rio Branco scorse finalmente un baretto aperto, con un cameriere svogliatamente impegnato a lustrare gli specchi dietro il banco. Nel passare ne incontrò lo sguardo. Lui le sorrise cortesemente, e Andie rispose con un cenno del capo. Le era solo sembrato, oppure aveva visto davvero scoccare dai suoi occhi un bagliore dorato? Forse si era trattato solo di un riflesso, pensò, mentre faceva il suo ingresso al Cesar Park. Ad ogni modo non era il momento. Adesso toccava alla riunione.

Eleanor Jacobsen, tanto per non smentirsi, venne immediatamente al dunque.

«Come sapete, siamo qui per indagare con estrema discrezione su certe dicerie nate a proposito di supermutanti. Io, personalmente, non ci credo affatto. Tuttavia, fino al termine della nostra missione, non darò nulla per scontato. Cominceremo col visitare stamattina i laboratori di ingegneria genetica del dottor Ribeiros. Ufficialmente ci presenteremo come una delegazione incaricata di reperire, nell’ambito di una iniziativa congiunta americano-giapponese, ditte di provata serietà cui affidare in appalto ricerche di carattere biomedico. Dopo pranzo il signor Craddick, il reverendo signor Horner e io stessa ci incontreremo col dottor Ribeiros per vagliare l’attitudine dei suoi laboratori a lavorare su commissione. Suggerisco agli altri di utilizzare nel frattempo la biblioteca del centro per cercare di trarne qualche utile indicazione. Ricordate che non possiamo correre il rischio di offendere i brasiliani. Quindi state molto attenti. Ci ritroveremo tutti alle quattro per confrontare le nostre osservazioni. Domande?»