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«Mah, speriamo che tu abbia ragione.» Ryton andò a sistemarsi in poltrona e incominciò a riempirsi la pipa di tabacco, segno che la conversazione poteva considerarsi conclusa.

Sue Li esalò mentalmente un sospiro di sollievo, riattivò il monitor e tornò a occuparsi della rivista, congratulandosi con se stessa per avere evitato la delicata questione della vita sessuale di suo figlio. Più avanti, comunque, avrebbe fatto bene ad affrontare l’argomento con Michael…

7

Andie spense l’antiquato lettore di microfiche.

«Al diavolo!»

La sua idea non era approdata a nulla. Rio ospitava una piccola popolazione mutante di circa duemila persone, percentuale quasi insignificante sui dieci milioni di brasiliani stipati nella città. Nemmeno sufficiente a riempire tutti i bar dell’immenso agglomerato con camerieri e clientela dagli occhi d’oro. Era evidente che l’entità della locale popolazione mutante faceva a pugni con le sue bizzarre congetture. Gli occhi d’oro di quel venditore di gelati doveva esserseli proprio immaginati.

Quasi un giorno intero sprecato a rincorrere un’assurda intuizione. Che cosa avrebbe raccontato alla senatrice Jacobsen? L’indagine si stava rivelando un completo insuccesso, e chissà quante storie avrebbero fatto alla Ragioneria Generale. Per non parlare di tutti i voti che, sotto elezioni, quella vicenda sarebbe potuta costare alla Jacobsen. Bisognava che escogitasse qualcos’altro.

Attorno a lei ronzava la biblioteca dell’Istituto di Medicina Rosario do Madrona. Monitor incastonati a intervalli regolari nella bianca parete circolare la fissavano gravemente. Qui non c’era nulla che potesse confermare i suoi sospetti. Forse era giunto il momento di adottare un approccio più diretto.

Si rivolse a Catalina Jobim, la bibliotecaria addetta al reparto consultazione.

«Potrebbe suggerirmi altre fonti che trattino l’argomento dell’inconsueta pigmentazione oculare? Una pigmentazione oculare dorata, per l’esattezza?…»

La bibliotecaria in verde ostentò un’aria perplessa.

«Ma, signorina Greenberg, che cosa sarebbero questi occhi dorati di cui mi parla?»

«Oh, solo certa gente che ho visto per strada», minimizzò Andie. «I loro occhi mi sono parsi così… belli. Ero curiosa. La vostra popolazione mutante è numericamente piuttosto modesta, in fondo.» Fece una pausa, fissando con attenzione la Jobim. «Esisterà pure una qualche documentazione in proposito, vero?»

«No», replicò la bibliotecaria in tono reciso. «Niente del genere. Quel che lei ha visto erano probabilmente lenti a contatto. Ne sono certa.» Sorrise. «Rimarrebbe sbalordita, se sapesse quante mode pazzesche nascono qui da noi. L’anno scorso portavano tutti i capelli rossi. Tutti, le dico. Adesso gli occhi dorati. E domani chissà cos’altro inventeranno.»

Andie avrebbe voluto crederle, ma il modo strano in cui l’altra la fissava non fece altro che accrescere i suoi sospetti. Ringraziò la bibliotecaria e si congedò. Era quasi mezzogiorno.

A pranzo, la Jacobsen aveva un’aria più riservata del solito.

«Trovato qualcosa?» domandò, gingillandosi con una fetta di popone.

«Niente», ammise Andie. «E prego già di scovare un indizio, una traccia, non pretendo proprio una prova tangibile, dell’esistenza di questi supermutanti… tanto per aver qualcosa da riportare a casa.»

«Come ti capisco.»

Andie si domandò se nel corso delle indagini il suo capo non fosse incappata in qualche ostacolo imprevisto. Comunque le sembrava inverosimile. Se c’era qualcuno capace di veder chiaro attraverso le cortine fumogene, si trattava proprio di Eleanor Jacobsen. Ma la senatrice appariva tesa e preoccupata. Arrivate al dessert, Andie pensò bene di porre una domanda precisa.

«Non è nulla, Andie», rispose la Jacobsen. «E risparmiami quegli sguardi materni. Il clima tropicale non fa per me. Tutto qui.»

Sebbene a malincuore, Andie lasciò perdere. Avendo un’ora libera subito dopo pranzo, prese in considerazione la possibilità di godersi una passeggiata lungo la spiaggia, ma poi decise che non era il caso: il sole del primo pomeriggio picchiava troppo forte. D’altra parte le veniva l’agitazione, alla sola idea di rimanersene lì rinchiusa a respirare l’aria condizionata dell’albergo. Bisognava che uscisse, non foss’altro che per una semplice camminata attorno all’isolato.

Svoltando all’angolo dell’Avenida Rio Branco si allontanò rapidamente dai bassi, aerodinamici libratori coi parabrezza schermati che si allineavano lungo il viale silenzioso — troppo silenzioso in quell’ora inerte — e camminò per parecchi isolati attraverso il quartiere elegante, ammirando le sgargianti vetrine dei negozi di Rio do Sul Mall. La strada era pressoché deserta, fatta eccezione per una ragazza vestita di rosa che stava sgridando due bambini. Incrociata un’invitante via trasversale, Andie fece sosta a un caffè, attratta dalle tovaglie vivacemente colorate e dall’ombra di una jacaranda purpurea in piena fioritura.

I tavolini erano quasi tutti vuoti. Seduto a uno di essi un uomo scarno, in costume da bagno, fumava e scrutava il proprio orologio, in attesa di qualcosa. Accanto al compubar un altro uomo, con barba e occhiali neri, sorseggiava una birra.

Andie scelse un tavolino presso l’albero. Il cameriere, un mulatto dagli occhi castani e dai riccioli biondi, si avvicinò per prendere l’ordinazione domandando, in cadenzato portoghese: «Tazza o ipodermica di caffeina?»

«Tazza, per favore.»

Andie lo guardò inserire l’ordinazione nel bar. Poi si rilassò contro lo schienale curvo del sedile di plastica e rimase a osservare la strada. Le giungeva, assai smorzato, il lontano pulsare del traffico. Provò la tentazione di vagabondare giù per l’isolato fino a scomparire, dando un calcio alle indagini parlamentari e dimenticando ogni preoccupazione circa il colore degli occhi della gente.

Un’ombra più scura venne a incombere su di lei.

«Mi scusi», l’apostrofò in perfetto angloamericano una voce tenorile. «È libero questo posto?»

Alzando lo sguardo, Andie constatò che il barbuto del bar adesso le stava accanto. Prima che potesse replicare per le rime all’importuna richiesta, quello si era già seduto.

«Desidero essere lasciata in pace», dichiarò freddamente. L’uomo sorrise e si tolse le lenti scure, mettendo in mostra due occhi chiarodorati.

«È proprio sicura di non gradire la mia compagnia, signorina Greenberg?» Si mise comodo, esaminandola attentamente. Tornò il cameriere recando una tazzina di nero liquido fumante. Senza rendersi ben conto di quello che faceva, Andie prese a versarvi cucchiaini di zucchero riempiendola sin quasi all’orlo. Quando il cameriere si fu allontanato, Andie tornò immediatamente a rivolgersi allo sconosciuto interlocutore.

«Come fa a sapere chi sono?»

«E per quale motivo non dovrei conoscere il nome dell’assistente amministrativa di mia cugina Eleanor?» Si strinse nelle spalle, bevve un sorso di birra. «Mi chiamo Skerry. E risparmierò a entrambi un mucchio di tempo e un sacco di fastidi, signorina Greenberg. Io lo so perché siete qui. E magari sono anche in possesso di qualche informazione che potrebbe tornarvi utile.»

«Per esempio?»

«Lei è preoccupata per questa storia del supermutante ancor più di quanto non lo sia la mia esimia parente. E fa bene, ad esserlo. Eleanor si sta sbagliando. Cerchi di farglielo capire, prima che sia troppo tardi.»

«Vuol dire che quaggiù ci sono davvero dei supermutanti? Che non si tratta solamente di chiacchiere?» D’un tratto, a dispetto di se stessa, Andie desiderava credergli.

Skerry alzò le spalle. «Difficile a dirsi. Ora come ora, tutto quel che sappiamo è che sono riusciti a produrre un qualche genere di agente mutageno capace non solo di evidenziare, ma anche di esaltare la potenziale tendenza a certe specifiche mutazioni. Questo, per lo meno, è quanto emerge dai risultati ottenuti. Non ho idea di come ci siano riusciti, e non so neppure fin dove possano essersi spinti.»