Andie si accorse di essere rimasta a bocca aperta. La richiuse, inghiottendo penosamente il nodo che le si era fermato in gola. «Oh, mio Dio! Ma credevo che usassero i rivelatori di metalli… I raggi X non hanno funzionato?»
V.J. fece spallucce. «Qualcuno, evidentemente, si è fatto furbo.»
«E Seth adesso dov’è?»
«L’hanno portato al Sorelle misericordiose. Sembra che riusciranno a salvargli la mano.»
«Ma quando è successo?»
«Stamattina.» Le diede un’occhiata inequivocabile. «Attenta a queste lettere, da qui in avanti, eh?» Dopo di che si affrettò a riguadagnare la porta, saltò sul suo carrello, e se ne andò.
Andie rimase lì con lo sguardo perso nel vuoto, senza vedere nulla. Pur con le nuove tecniche rigenerative, era facile che Seth non recuperasse più interamente l’uso della mano. E pensare che è… anzi, era… un così bravo artista, pensò Andie tristemente. Due di quei magnifici acquerelli all’acrilico, scarlatto e blu, li aveva anche lei nel suo appartamento. Povero Seth. Vittima di chi odiava i mutanti? O vittima, piuttosto, dei mutanti stessi, e del loro desiderio di partecipare da protagonisti alla vita pubblica?
E lei cosa stava a farci, in quell’ufficio? Chissà che non fosse proprio lei la prossima ad aprire una lettera esplosiva, o magari a buscarsi una pallottola destinata alla senatrice… Era per caso ammattita? Forse avrebbe dovuto davvero seguire il consiglio di sua madre, e dopo la laurea in giurisprudenza abbracciare la carriera di difensore d’ufficio…
No. Aveva preso la decisione giusta. Andie rammentò a se stessa l’entusiasmo con cui aveva fatto domanda per ottenere quell’incarico. Lavorare con il primo senatore mutante nella storia del Congresso era un onore. Lei credeva ardentemente nella causa dell’integrazione. E quale miglior posizione, per mettere in pratica il suo ideale, di quella che attualmente occupava, braccio destro dell’onorevole Jacobsen? La senatrice l’affascinava: mezza santa, mezza guerriera, e completamente enigmatica dietro l’impenetrabile scudo di quegli occhi d’oro. Andie ammirava Eleanor Jacobsen con una intensità che sfiorava l’adulazione. Scrollandosi di dosso lo scoraggiamento che per qualche istante l’aveva attanagliata, premette il pulsante dell’interfono. Bisognava che la senatrice venisse informata di quella bomba.
«È una scadenza assolutamente inaccettabile, signor McLeod. Lei sa bene quanto me che non possiamo costruire e rendere operativo un generatore Brayton a ciclo chiuso in meno di sei mesi. No, neanche a parlarne.» La voce di James Ryton si levò alta e decisa nella sala conferenze.
Nonostante l’irritazione che lo pervadeva, Bill McLeod si mostrò impassibile. Non posso mandare all’aria l’affare proprio ora, pensava, dopo tutto il tempo che mi ci è voluto per organizzare la trattativa! Si ripeté che il suo incarico di consulente presso la NASA costituiva uno dei lavori più favorevoli che si potessero immaginare. Non erano molti gli ex piloti dell’aeronautica militare che godessero del suo prestigio. Ma cosa non avrebbe dato, in quel preciso momento, pur di starsene a casa in panciolle, o magari trovarsi alla pista, a trafficare con il suo vecchio Cessna superleggero! C’era quell’alettone che aveva proprio bisogno di una bella smerigliata… Cercando di guadagnare tempo per riflettere, mandò giù un sorso di caffè freddo e si asciugò i baffi con un tovagliolino.
Ryton era un avversario tenace. E quell’altezzoso atteggiamento da mutante non favoriva certo i contatti. Pareva quasi che gli avesse fatto un favore anche solo presentandosi all’incontro. Fatto sta che il gruppo di Ryton disponeva dei migliori ingegneri delle trasmissioni reperibili in tutto l’emisfero. Ce n’erano di più in gamba a Tokyo e Leningrado, ma Ryton deteneva il pregio innegabile di trovarsi a portata di mano. McLeod, o piuttosto il governo, aveva assoluto bisogno di lui per il progetto del collettore solare. E Ryton ne era perfettamente consapevole.
«Allora, signor Ryton, che ne dice di nove mesi?» E attese la risposta, mentre un silenzio teso gravava su di loro, intenti a squadrarsi con aria contegnosa.
«Quindici.»
«Dodici?»
«Va bene.»
McLeod si concesse un sospiro di sollievo. Tutta colpa di quei maledetti regolamenti governativi, pensò. In seguito al fallimento dal progetto Groenlandia, sul gigantesco apparato NASA si era abbattuto un diluvio di severissimi controlli circa le misure di sicurezza. Se non fosse stato per la base lunare franco-russa, l’intero progetto del collettore solare sarebbe probabilmente finito in nulla. Dopo l’affare Groenlandia, McLeod lo sapeva bene, non c’era stato amministratore della NASA che non avesse innalzato una silenziosa preghiera di ringraziamento per quella base lunare.
Ad ogni modo, nonostante il proliferare di incartamenti e norme procedurali, la NASA necessitava del generatore in assetto operativo e pronto all’imbarco entro nove mesi. Ryton, grazie al cielo, godeva fama di consegnare i lavori con buon anticipo sulle scadenze. Un po’ per gli inevitabili ritardi, un po’ per le veementi polemiche che infuriavano a proposito della base lunare, una previsione di dodici mesi appariva realistica.
Concluso l’accordo, McLeod strinse la mano al mutante, il quale sembrò non gradire troppo quel contatto. Il suo palmo era caldo, quasi bruciante, ma asciutto. Che strano, pensò McLeod, hanno un’aria così gelida, con quegli occhi dorati e l’incarnato color miele, e poi vai a capire che razza di temperatura corporea si ritrovano. Difficile non considerarli degli scherzi di natura. Egli non ignorava che era attualmente considerato di cattivo gusto definirli fenomeni, aborti e via dicendo… Ma erano veramente umani? E lui, era davvero disposto a tollerare che sua figlia frequentasse uno di loro?
Kelly McLeod lasciò il libratore nel viale d’accesso e s’infilò a tracolla lo zainetto portadischi, facendone scorrere le cinghie sulla plastica rossa della giacca a vento. Le lampade accese in cortile brillavano calde e invitanti sullo sfondo blu del crepuscolo, mandando riflessi color ambra sullo strato di neve che ricopriva le siepi.
Aprì la porta, lasciò cadere lo zaino nel vestibolo e appese il giaccone all’attaccapanni. Vide sua madre seduta sul divano che faceva scorrere una videorivista sul teleschermo. Sul tavolinetto accanto, mezzo vuoto, un bicchiere da liquore. L’aroma del vermut si mescolava alle vivaci fragranze di cucina.
Kelly si augurò che quello fosse solo il suo primo Martini. Joanna McLeod, di solito, non attaccava a bere sin dopo il tramonto. Era un’abitudine che aveva preso fin da quanto erano tornati da Berlino, l’anno prima. Dalla Germania al New Jersey. Che delusione. Kelly non se la sentiva di biasimarla se sua madre si era messa a bere. E comunque, che altro le restava da fare? Per quanto riguardava Kelly, la periferia era un unico immenso prato verde con tante macchine e tanta acqua per lavarle. Lezioni di nuoto e corsi di computer. Il sogno americano. Ma i suoi sogni la conducevano altrove, sebbene lei non avesse ancora ben chiara in mente la meta finale.
«Ciao», salutò, pronta già a fuggirsene su per gli scalini, rivestiti d’una passatoia marrone chiaro, che la separavano dalla sua camera.
«Oh, Kelly.» Joanna distolse l’attenzione dal teleschermo, sorrise, poi diede uno sguardo allarmato all’orologio. «Santo Cielo, ma che ore sono?»
«Stai tranquilla. Papà probabilmente è giù al campo, a trastullarsi dentro l’hangar col suo superleggero.»
«Hai ragione. Aveva un appuntamento all’una, ma non può mica essere durato tanto, vero? Da quando è andato in pensione, trattare questi contratti governativi sembra più un divertimento che un lavoro, per lui.» Joanna sorrise di nuovo, arricciando il naso. A Kelly sarebbe piaciuto che la lotteria genetica quel bel nasino a punta l’avesse dato in sorte a lei… E invece era Cindy che sembrava aver ereditato tutta la solare, fulva bellezza della mamma.