«Naturalmente.»
«Ottimo. Conosci la procedura.»
«Certo. Sto esaurendo la narcodeina.»
«Ne avrai un’altra scatola in mattinata…» Una pausa. Benjamin sapeva perfettamente quale sarebbe stata la domanda successiva.
«Nessun mutante, in questo gruppo?»
«No.»
«Be’, continua a cercare.»
«Sempre.»
James Ryton aveva già tentato di interrompere il proprio forsennato andirivieni, ma le sue gambe parevano in preda a un’agitazione incontrollabile. Dalla cucina alla porta d’ingresso al soggiorno, dalla videoparete alla finestra, interminabilmente ripercorreva un immutabile circuito casalingo andando su e giù per l’azzurra moquette. Sua moglie l’osservava dal divano, sguardo imperscrutabile, volto pallido. Egli attizzò la pipa, la guardò spegnersi, la riaccese, ma non attaccò a fumare. Doveva chiamare la polizia? Halden?
«James, mi stai facendo girare la testa», protestò Sue Li.
Lui si volse a guardarla, sentendo l’indignazione gridargli dentro con cento voci diverse. «Neanche un messaggio, un accenno, una parola. Non so che fare.» In vita sua non gli era mai capitato di sentirsi tanto indeciso e disorientato.
«Aspettiamo che Michael torni a casa. Può darsi che ne sappia più di noi.»
«E se non fosse?» La testa gli pulsava senza tregua. Le vampate mentali si susseguivano a distanza ravvicinata, e la loro cacofonica chiarudienza si andava trasformando in un solenne mal di capo. Quelle maledette vampate, di solito, lo colpivano ogni volta che entrava in agitazione, simili a una riecheggiante emicrania. Anche suo padre ne aveva sofferto, e ancor prima suo nonno.
Una vocetta maligna sussurrò a Ryton che si trattava solo del primo passo di quel lento viaggio verso la follia che tanti dei suoi confratelli avevano già compiuto. Si sarebbe dunque dovuto rassegnare a finire i suoi giorni vaneggiando in un’ignobile reclusione, tormentato dagli echi distorti della sua stessa chiarudienza? Respinse quell’angoscioso pensiero opponendovi la preghiera di una morte rapida, e tornò verso sua moglie.
«Decideremo il da farsi», rispose Sue Li.
«Ma come fai a rimanere così mostruosamente calma?» E lo prese una repentina irritazione per quello sguardo imperturbabile, quel contegno distaccato. Sue Li e la sua faccia da Buddha.
«Solo in apparenza. Sono preoccupata anch’io, naturalmente. Però non ha senso che ci mettiamo tutt’e due a fare il viottolo nella moquette.» Poi, dopo una pausa: «Affidati ai canti. Ti aiuteranno a ripulirti la mente.»
«No! Inutile.» Sapeva bene che neppure i canti del clan erano in grado di mitigare, e tanto meno ridurre al silenzio, l’antifonale coro greco che ululava dentro di lui. I tranquillanti sarebbero stati più efficaci, ma avrebbero anche indebolito la sua capacità di giudizio. Aveva l’impressione di muoversi dentro un rumoroso forno a convezione in cui qualcuno si stesse divertendo ad aumentare lentamente, interminabilmente, il flusso d’aria calda. Si slacciò il colletto.
Un sibilo annunciò l’aprirsi della porta d’ingresso, poi comparve Michael.
«Mamma. Papà…» Tacque un istante. «Che succede?»
«Michael, ti ha detto nulla, tua sorella, dell’intenzione di prendersi un lavoro estivo a Washington?» chiese Ryton con voce rauca.
«Mel? No. Credevo che fosse andata a trovare la cugina Evra.»
«Anche noi», intervenne Sue Li.
«E invece?»
Ryton scosse la testa. «Abbiamo chiamato ore fa. Evra è da sua sorella in Colorado. È dall’inizio delle vacanze che non vedono Mel.» Sentiva la tempestosa percezione crescergli dentro ad ogni istante. Si lasciò andare, con cautela, nella sua poltrona. «Finalmente abbiamo trovato un messaggio sullo schermo interno. Niente indirizzo. Solo un accenno che si metterà in contatto con noi appena sistemata.»
«Avete guardato in camera sua?»
«Si capisce. Ha preso solo qualche capo di vestiario. Tutto il resto è rimasto lì.»
«E i soldi? I suoi gettoni di credito?»
Ryton avvertì un’ulteriore fitta d’irritazione. Non ci aveva pensato. Si volse a sua moglie. «Hai controllato tu?»
«No.»
«Dov’è che li tiene?»
«Nel terzo cassetto del suo scrittoio.»
Fece gli scalini due alla volta. Ma ancor prima di raggiungere la camera di Mel, sapeva già che il cassetto sarebbe stato vuoto. Tornò giù scuotendo la testa.
«Spariti.»
«Non potrebbe averli nascosti Jimmy?» domandò Sue Li.
Ryton fece il possibile per dissimulare la sua collera. Jimmy a quest’ora dormiva, ed era senza dubbio innocente. Non ci pensava neppure a svegliarlo inutilmente. Non ancora, per lo meno.
«Ma no, che dici.»
«Quindi alla fine si è decisa», commentò Michael, con uno strano sorriso cui Ryton non diede importanza. Poi il giovane si addossò alla parete e incrociò le braccia, fronteggiando suo padre. «Buon per lei, comunque.»
«Come sarebbe a dire?»
«Sarebbe a dire, papà, che avreste dovuto prevederlo. Era da un bel pezzo, ormai, che Mel ambiva a dimostrare la sua indipendenza.»
«E tu perché non ce l’hai detto?»
«Pensavo che ve ne foste accorti. E poi non immaginavo che l’avrebbe fatto sul serio.»
Ryton si accostò al videocom. «Dobbiamo avvertire la polizia. E anche Halden.»
«Bisogna che siano trascorse almeno ventiquattr’ore, prima che si possa denunciarne la scomparsa.»
«Ormai è da sabato che manca.»
«Chissà se Kelly avrà idea di dove potrebbe essere andata?…» domandò Sue Li in tono pacato.
«Non lo so», rispose Michael. «Stasera, comunque, non mi ha detto nulla.» E rivolse a suo padre uno sguardo di sfida.
«Ah, ecco dov’eri», commentò Ryton, sentendosi invadere da una nuova ondata di sconforto. Michael non replicò. «Be’, domattina, per prima cosa, sarà bene che chiami quella ragazza e la metti al corrente, in caso Mel decidesse di contattarla.»
«Lo farò, anche se non servirà a granché. Vanno via fra poco e stanno fuori due mesi.»
Ryton scrutò attento suo figlio, cercando invano un’ombra del bambino che era stato. Crescevano, i suoi ragazzi, e diventavano estranei dall’espressione indifferente. Il mondo stava proprio impazzendo. Digitò sulla tastiera il numero di Halden. Il monitor rimase vuoto, di un inerte verde scuro. Dopo un minuto si sentì attivarsi l’audio.
«Halden, parla James.»
«Qualche problema?» La voce di Halden giungeva roca, impastata.
«Temo di sì. È scomparsa mia figlia.»
Lo schermo s’increspò brevemente di pagliuzze policrome che finirono per solidificarsi nella faccia di Halden, disfatta dal sonno. Lo si vide distogliersi un attimo dal video come per rispondere a qualcuno fuori campo. Zenora, molto probabilmente. Quando tornò di fronte, appariva scuro in volto.
«Scappata di casa?»
«Così pare. Ci aveva raccontato che andava a una festa, ma poi abbiamo trovato un messaggio in cui dice di aver trovato lavoro a Washington.»
«Quant’è che se n’è andata?»
«Due giorni.»
Halden emise un fischio sgraziato.
«E perché avete aspettato a chiamare?»
«Pensavamo che fosse andata a trovare Evra.»
«Eppure ti avevo avvertito, James, che tua figlia era infelice.»
Ryton sentì che il proprio autocontrollo rischiava di infrangersi da un momento all’altro. «Halden, lo sapevamo tutti che Melanie era infelice. Ma che potevamo farci? E comunque non ti ho chiamato per sentirmi propinare una lezione di pedagogia.»
Halden annuì. «Hai ragione, James. Non serve a nulla discuterne ora. Piuttosto, di che lavoro si tratta?»
«Non si sa.»
«D’accordo, provvederò a diffondere la notizia. Ti rendi conto, vero, di quanto sarà difficile rintracciarla… specialmente trattandosi di una neutra?»
«Ma sì, sì», rispose Ryton in tono impaziente. «Sono perfettamente consapevole delle limitazioni insite in una rete telepatica. Anche noi abbiamo i nostri limiti.»
«Senza contare, poi, che la disfunzionalità di Melanie agisce quasi come una barriera riflettente.»
«E allora andate in cerca di uno spazio assolutamente vuoto che respinga tutti i nostri sforzi. Ecco, sì, proprio un nulla, questa è la migliore definizione che se ne può dare.» Ryton avvertì netto il trasalimento nel respiro di Sue Li, l’emanazione d’orrore suscitata dalla sua battuta.
Halden fece una smorfia. «James, capisco bene che sei sottoposto a una tensione tremenda, ma se è questo che pensi di tua figlia, non mi sorprende affatto che se ne sia andata senza tante cerimonie.»
«Mi spiace, Halden. Il fatto è che sono scombussolato. Capirai, è solo una bambina…»
«Conosci nessuno, a Washington?»
«No… Anzi, sì, nell’ufficio della Jacobsen.»
«Allora ti suggerisco di sentirli subito domattina. Mi farò vivo appena so qualcosa.» Lo schermo si spense.
Ryton si volse a fronteggiare la sua famiglia. Sue Li aveva le labbra increspate in un modo che non prometteva nulla di buono. Michael, paonazzo in viso, lo fissava accigliato.
«Bel colpo, papà.»
«Che vuoi dire?»
Michael scosse il capo. «Ha ragione zio Halden. Sei proprio uno stronzo incredibile.»
«Non ti permettere di parlarmi a questo modo, capito?» Nel cervello di Ryton, babeliche voci rincaravano la dose. Si massaggiò la fronte con gesti stanchi.
«E scommetto che ti preoccupa molto meno l’incolumità di tua figlia, delle chiacchiere che verranno fuori al convegno estivo.»
«Michael!» intervenne Sue Li in tono scandalizzato.
A Ryton la testa martellava ferocemente. La voce di quel ragazzo irriverente era ormai solo una delle tante che congiuravano nell’inchiodarlo alla sua sofferenza. «Ma non essere ridicolo.»
«Michael», soggiunse Sue Li, «tuo padre è terribilmente sconvolto. E poi lo sai che quando è agitato gli vengono le vampate mentali.»
«E come se lo so. E so anche che mia sorella se n’è scappata chissà dove, che forse proprio ora si trova nei guai, e che tutto quel che siete capaci di fare è mettervi a frignare col caro zio Halden.»
«Michael, basta così!» ordinò Sue Li.
Ryton li lasciò alla loro discussione e fuggì verso il bagno. Aveva assoluto bisogno di qualcosa che placasse quel rumore, che lenisse il suo dolore.