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«Purtroppo non ci ha lasciato alcun recapito. Non abbiamo neppure modo di contattarla. In pratica non so che cosa fare. Potrebbero violentarla. Ucciderla. Non sarebbe la prima volta.» Ryton si sentiva nell’umiliante posizione di un supplice che nudo e pieno di vergogna esponesse le proprie miserie al giudizio di Andrea Greenberg. Proprio mentre incominciava a disperare di convincerla ad aiutarlo, l’espressione di lei si addolcì.

«Ho capito», disse Andie. «Ascolti, penserei di rivolgermi a qualcuno che conosco nella polizia di qui, per vedere se si può arrivare a capo di qualcosa. Non posso prometterle nulla, naturalmente.»

«Signorina Greenberg, non so proprio come esprimerle la mia riconoscenza…» disse Ryton con voce tremante.

Lei aveva un’aria imbarazzata. «Be’, farò quel poco che posso…»

«Questa è la seconda volta che accetta di aiutarmi. Spero, un giorno o l’altro, di poterla ricambiare. Grazie.»

«La chiamerò io non appena so qualcosa. A presto, mi auguro.» La sua immagine svanì.

Ryton incominciò a raccogliere i fogli gialli che gli stavano sparpagliati dinanzi. Ora che conosceva Andrea Greenberg, si disse, non gli sarebbe più stato così facile condannare in blocco tutti i normali…

Lo Star Chamber era semibuio, a mezzogiorno, puzzolente di birra stantia e impregnato del fumo di infinite sigarette. Melanie aguzzava lo sguardo nella cupa penombra, cercando di non mostrare il proprio nervosismo mentre il proprietario del bar la fissava attento con un paio di occhietti luccicanti. I suoi incisivi sporgenti le ricordavano i criceti che aveva veduto una volta durante la lezione di scienze.

Antiquati tubi al neon lampeggianti in rosa e verde lungo le pareti, e crioluci ammiccanti dal robostereo nell’angolo, costituivano le uniche fonti d’illuminazione. Ogni volta che si muoveva, Melanie sentiva qualcosa scricchiolarle sotto i piedi. Si appoggiò a uno sgabello, cercando di non rovesciare il portacenere stracolmo che ci stava attaccato.

«Girati un po’, ragazzina», ordinò l’uomo con voce rauca. Aspirò da una cicca che stringeva disinvoltamente fra pollice e indice, poi la gettò di scatto dentro il lavello del bancone.

Lei fece una rapida giravolta, sentendosi terribilmente a disagio nei suoi jeans attillati.

«Più piano.»

Melanie obbedì.

«Le gambe vanno bene. Anche il culetto è a posto. E adesso vediamo le tette.»

«Come?»

L’uomo fece un gesto di impazienza. «Avanti, poche storie. È un numero di danza orientale. E le danzatrici orientali devono averci le tette al bacio. Lo vuoi questo lavoro oppure no?»

Ciò che Melanie avrebbe voluto, era filarsela alla svelta, ma quel lavoro le serviva assolutamente. Doveva farsi coraggio, e rimanere. Si tolse la camicetta con dita maldestre.

«Anche il reggiseno.»

Se lo sganciò, lieta della penombra. L’uomo rimase a guardarla per quella che a lei parve un’eternità.

Finalmente annuì. «Carino. Piccolo ma carino. Che strano, chissà perché, non credevo che le tette d’una mutante fossero come quelle di tutte le altre. Va bene, bimba, il lavoro è tuo. Torna verso le sei e mezzo, così una delle altre ragazze ti spiega come funziona qui da noi. Dabbasso, nell’armadietto numero quattro, troverai un costume per te. Tenerlo in ordine è compito tuo. La paga è di trecentocinquanta crediti la settimana, più le mance.»

Melanie si precipitò fuori del locale in un impeto d’euforia. Aveva trovato un lavoro! Gliel’avrebbe fatto vedere a tutti quanti, se era capace o no di badare a se stessa! Tornò di corsa all’infima stanzucola presa in affitto nei pressi della Decima Avenue; voleva avere tutto il tempo di prepararsi per la serata, e dopo le cinque il bagno comune diventava in genere affollatissimo.

Quando si ripresentò allo Star Chamber, il bar era già pieno di gente intenta a bere e a fumare. Scese subito al piano di sotto, accompagnata dalle ossessive vibrazioni del robostereo. Scoprì il suo armadietto acquattato in un angolino che dava l’impressione d’esser nato come cantina. La stanza era stipata di donne in vari stadi di nudità. Aperto lo sportello ed estratto il contenuto, Melanie rimase lì sconvolta a fissare il suo costume. Si trattava di un infinitesimo corsetto, poco più che uno slippino, merlettato di scarlatto, con giarrettiere attaccate a calze nere lampeggianti di violacee crioluci a forma di freccia.

«Che hai da guardare tanto stravolta? Mai visto prima un puntino?» domandò la ragazza dai capelli rossi alla quale s’era trovata accanto, detentrice d’un gran paio di mammelle pendule cui stava provvedendo ad applicare verdi stelline criolucenti.

«Dov’è il resto del mio costume?»

Per diversi secondi, una rauca risata fu quel che ottenne a mo’ di risposta.

«Il tuo costume è tutto lì, carina», spiegò la rossa abbastanza gentilmente. «Tu devi essere la nuova ragazza. Dick mi ha detto di introdurti un po’ nell’ambiente. Dai, vestiti. E non dimenticarti le freccette viola. No, non sulle orecchie. Sui pettorali. Aspetta, che ti aiuto io.»

Circondò con una mano il seno sinistro di Melanie, prese una freccetta viola, la leccò, l’appiccicò delicatamente al capezzolo. Ripeté l’operazione a destra. Tutt’e due le volte le sue mani indugiarono un po’ più del necessario, e a quel contatto estraneo Melanie sentì i capezzoli inturgidirsi.

«Sei proprio una deliziosa coccolina», fece la rossa con voce roca, strofinando le nocche in lungo e in largo sul petto di Mel.

«Per favore, no.»

«Chiamami Gwen.» Circondò Melanie con un braccio e se la trasse più vicino. Poi, come se niente fosse, le infilò una mano sotto le mutandine e cominciò a esplorare, carezzando teneramente, un’espressione di amichevole curiosità dipinta sui lineamenti volgari. Pareva avere completamente dimenticato la baraonda che le attorniava: ragazze che sbatacchiavano gli sportelli degli armadietti, indossavano i loro striminziti costumi e correvano di sopra.

Melanie cercò di sgusciar via dalle attenzioni di quella mano insistente addossandosi agli armadietti, ma Gwen, ansimando, continuò a serrarla da vicino. Melanie si sentiva stordita come se stesse ormai cominciando a soffocare nella morbida stretta di quegli enormi seni profumati, e infatti il suo respiro si andava riducendo a una serie di brevi rantoli affannosi.

«Vedo già che diventeremo buone amiche», sussurrò Gwen leccandosi le labbra. «C’è un mucchio di cose che posso insegnarti…» E intanto le sue dita intriganti s’affaccendavano in cerchi sempre più stretti.

«Per favore…» ripeté Melanie debolmente. Quelle diaboliche carezze. Oh, Dio mio, pensò confusamente, fa’ che la smetta… Ma per l’appunto incominciava a piacerle. E le sue gambe, come provviste d’una loro volontà, si divaricavano per lasciar via libera a quella mano benedetta. Gwen le prese un capezzolo in bocca, con freccia e tutto. Melanie diede un gemito. Sì, voleva che la smettesse… No! Che continuasse, anzi. Che continuasse a carezzarla e titillarla e…

«Gwen! Vacca boia, quante volte devo dirtelo di non mandarmi in fregola le nuove ragazze!» Il padrone del bar stava piantato in mezzo alla soglia coi pugni sui fianchi.

Gwen lasciò andare il seno di Melanie e ritrasse di scatto l’intraprendente mano.

«Scusa, Dick», borbottò la rossa con espressione contrita. Poi cercò lo sguardo di Melanie, e le fece l’occhiolino.

«Andate di sopra. Di’ a Terry che metta la nuova a servire da bere e le faccia vedere come si fa.»

«Va bene.»

Con un misto di sollievo e delusione, Melanie guardò l’abbondante posteriore di Gwen sparire su per le scale. Scrollò il capo per schiarirsi le idee, e si disse che doveva avere soltanto immaginato di provar piacere alle profferte di Gwen… Rabbrividendo, giurò a se stessa di starle alla larga, d’ora in poi.