«Tu!» ringhiò Dick puntandole addosso la sigaretta. «Vai di sopra pure tu! E cerca di non starti a grattare a spese mie!»
Imporporandosi tutta, Melanie si affrettò a raggiungere il piano superiore seguendo il suo datore di lavoro.
Adeguatamente indottrinata da Terry, una stangona di mulatta in puntino e calze rosa, durante il primo spettacolo Melanie andò in giro servendo bevande e confezioni di siringhe sterili.
Giunti all’inizio del secondo spettacolo, la clientela dello Star Chamber se ne stava ormai sbracata per tutto il cavernoso locale in vari stadi d’intossicazione. C’erano cascatori e testatici; un brinarcoide con strisce arancio tatuate sul cranio rasato e lungo il naso; un paio di ermafroditi in calzamaglia blu; stempiati uomini d’affari di mezza età con l’inseparabile videovaligetta; e turisti in tenuta da viaggio. Melanie non aveva mai veduto un simile assortimento.
La prima volta che un cliente le afferrò una natica, trasalì con tale violenza che per poco non rovesciò un bicchiere di gin-fizz. Terry se ne accorse, e intervenne un po’ irritata.
«Stupida che non sei altro. È proprio di lì che ti vengono le mance più grasse. Lasciali toccare come gli pare, e bada solo che paghino abbastanza.»
Melanie imparò alla svelta a sorridere e a sopportare il tocco rude di quelle mani che le palpeggiavano le gambe mentre dava il resto. In effetti pareva un sistema quasi infallibile per stimolare le mance. A quanto pare avevano tutti voglia di toccarla. E va bene, si disse risolutamente. Finché pagano…
Osservò Gwen esibirsi in una rozza danza a base soprattutto di vistosi ancheggiamenti, al ritmo di un frenetico rimescolio di fiati e percussioni scaturente dal robostereo. La spregiudicata rossa lasciò il palco con un largo sogghigno stampato in faccia e il corsetto straripante di credigettoni. Fu poi la volta di Terry lanciarsi in una sconnessa danza del ventre, sinuosamente contorcendo le braccia in lenti serpeggiamenti mentre il robostereo miagolava una melodia vagamente mediorientale. Ciascun brano di accompagnamento durava abbastanza da consentire con pieno agio agli avventori volonterosi d’infilare le credischede dentro i minicorsetti. Ed ogni volta che la musica aveva inizio, i clienti ubriachi, urlando e fischiando, tornavano ad affollarsi freneticamente attorno al palco.
«Adesso tocca a te», le disse Terry, scendendo di corsa gli scalini che fiancheggiavano la pedana rialzata.
«Ma io non sono mica capace!»
«Basta che fai finta. Devi solo montar su e sventolargli le tette sul muso. Non gli importa d’altro, a quelli. E bada di stargli parecchio vicina, altrimenti non arrivano a infilare le mance.»
Melanie salì gli scalini in preda a una sorta di stordimento. Il robostereo intimò al pubblico di dare il benvenuto a «Venere, l’erotica danzatrice mutante», poi attaccò un ritmo vibrante. Ma lei rimase lì, pietrificata dal panico, nel fumoso cono arancione del riflettore. I clienti, delusi, fischiarono la propria disapprovazione, e con bicchieri e siringhe si diedero a tempestare i tavoli d’una gragnuola di colpi. Il robostereo ricominciò daccapo. Anche stavolta Melanie non riuscì a muoversi. Guardando in direzione del bar si accorse che Dick la osservava senza batter ciglio. Poi, di fianco al palco, udì Terry sibilare: «Muoviti, stupida!»
Melanie scosse la testa e prese a muoversi pian piano verso gli scalini. Non ce la faceva. Voleva solo coprirsi e scapparsene di lì per sottrarsi alla bramosia che leggeva negli occhi degli uomini. La stessa avidità insaziata che aveva poco prima sperimentato con Gwen.
«Allora, si può sapere che aspetti?»
«Dai, balla, cretina che non sei altro!»
«Puah! Buttatela fuori!»
Si sentiva annichilire dai lazzi della folla. D’un tratto, un’acuta puntura la fece sobbalzare. Servendosi d’una siringa, Terry le aveva iniettato qualcosa in una gamba. In preda a un violento capogiro, Melanie vacillò. Ma la sua paura da palcoscenico decrebbe e scomparve man mano che il calore dello stimolante le si diffondeva nel flusso sanguigno. Questi babbei volevano uno spettacolo? E va bene, gliel’avrebbe dato lei, lo spettacolo.
Trasse un respiro profondo e prese a muovere i fianchi a imitazione delle altre due. Gli uomini fecero ressa verso le prime file, smisero di protestare e sedettero. Melanie chiuse gli occhi, immaginando di essere sola e di danzare soltanto per sé. Quando incominciò a trasmettere quell’ondeggiamento al resto del corpo, la folla urlò il suo consenso.
«E brava la mutosa!»
«Coraggio, tesoro, facci vedere le tue chicche!»
Ormai in sintonia col ritmo musicale, si fece più ardita, e riaprendo gli occhi trasformò gli statici contorcimenti in un lento, sinuoso, impettito incedere dinanzi alla prima fila di avventori. Quelli sventolavano credigettoni a tutto spiano, ma lei, provocante, si tenne alla larga.
Un grassone coi capelli brizzolati e pesanti borse sotto gli occhi agitò al suo indirizzo una credischeda da trecento.
«Ho sempre avuto voglia di tastare le tettine di una mutante!» berciò.
Melanie scosse la testa e continuò a stare fuori tiro.
L’uomo inalberò altre due schede da trecento.
«Dai, vieni qui, carina…»
Melanie aspettò finché l’offerente non arrivò a cacciar fuori milleduecento crediti. Poi, sculettando, gli si portò dinanzi, e si chinò. Quello attaccò subito a giocare di mani, e lei dovette fare uno sforzo violento per non sottrarsi d’istinto al fastidio e al disgusto delle sue grossolane attenzioni. Dopo un minuto, grazie al cielo, la lasciò andare, infilandole i crediti sotto la cintura.
Superato il primo impatto, le cose proseguirono senza intoppi. Ogni volta che vedeva qualcuno sventolare una credischeda, imbastiva un’azione di logoramento a base di allettanti ammiccamenti: poi, quando l’offerta diveniva interessante, andava a contorcersi abbastanza vicino da consentire al cliente di godersi le sue tastate e depositare la relativa mancia.
Cacciate il contante e toccate la mutante, cacciate il contante e toccate la mutante, cacciate… Dopo un poco andò avanti meccanicamente, con quell’unico pensiero fisso in testa.
Un giovane pallido, capelli neri tagliati corti e sul volto un paio di antiquati occhiali, non la finiva più di sporgersi oltre il bordo del palcoscenico, sollevandosi di slancio per infilarle crediti nel corsetto non appena lei gli veniva a tiro e afferrandole la prima gamba disponibile in una stretta brutale e dolorosa. La quinta volta, mentre la musica finalmente si concludeva, se lo scrollò di dosso senza tanti complimenti, e con infinito sollievo corse giù dal palco.
«Niente male», ammise Terry. «Prenditi cinque minuti di pausa, poi sotto coi tavoli. Dick vuole che ci diamo da fare a piazzare le siringhe di brina, ne ha tante che non sa più dove metterle.»
Melanie assentì con un sorriso riconoscente, quindi si fece strada attraverso la folla in direzione della mescita.
«Brina, per favore», ordinò al robobar.
«Ipo?» s’informò quello con automatica precisione.
«Sì.» Estrasse dal costume le credischede, e il totale la fece rimanere senza fiato. Più di cinquemila crediti! Non aveva mai avuto tanti soldi. Ricacciatisi i gettoni sotto la cintura afferrò l’ipodermica, sollevandola per osservarla controluce. Nella tozza siringa a perdere scintillava un liquido ambrato. Melanie chiuse gli occhi, e senza esitare si conficcò l’ago nella parte superiore del braccio. Il narcotico fece effetto in pochi secondi, innalzando fra lei e il resto del mondo una barriera d’ovattato benessere.
«Signorina Venere?»
«Sì?» Cauta, attenta a non perdere l’equilibrio, si volse. Era il pallido giovane occhialuto, quello che pareva essersi tanto appassionato ai suoi polpacci.
«Mi chiamo Arnold», disse. «Arnold Tamlin. Ho sempre desiderato conoscere una mutante.»