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Melanie si costrinse a sorridere. «Be’, eccomi qua.»

«Mi è piaciuta tanto, sa, la sua danza», dichiarò, mangiandosela con gli occhi.

Impastava le parole. Chissà quanto alcol aveva in corpo. Per non parlare del resto.

«Ma proprio tanto tanto tanto.»

«Grazie.»

Lo disse un’altra volta, poi si chinò verso di lei. Melanie indietreggiò andando a urtare il brinarcoide, che le diede un’occhiataccia.

«Mi scusi.»

Arnold Tamlin continuava a chinarsi. Poi sembrò come piegarsi in due e andò ad accasciarsi bocconi sul pavimento, dove rimase immobile. Sopraggiunse Dick, saggiò col piede il corpo di Tamlin, e non avendo ottenuto alcuna reazione si sporse sul banco di mescita.

«Buttafuori!»

Un massiccio automa grigio provvisto di chele imbottite scaturì da un alloggiamento all’estremità del bancone, afferrò l’uomo privo di sensi e lo trascinò verso l’uscita. L’ultima cosa che Melanie vide di Arnold Tamlin furono le scialbe suole delle sue scarpe.

Due ore dopo, Dick le annunciò che poteva considerarsi in libertà. Accogliendo la notizia con un senso di gratitudine, Mel rinunziò volentieri a servire l’ennesimo bicchiere di gin-fizz e raggiunse le ragazze che già si trovavano dabbasso. Era talmente ubriaca di stanchezza che rilevò a malapena la presenza delle altre, finché qualcuno non l’abbracciò da dietro piazzandole a coppa due mani impazienti sopra i seni.

«Vuoi che ti aiuti a toglierti il costume?…» le propose Gwen. Melanie sentiva sul collo il respiro caldo di lei.

«No! Lasciami in pace!» reagì rabbiosa, sottraendosi di scatto a quella stretta. Nelle ultime ore ne aveva avute anche troppe di mani estranee aggrappate al suo corpo. Si strappò di dosso il costume, si rivestì in fretta, corse di sopra e uscì dal bar.

In capo a venti minuti e a due fermate della metropolitana se ne stava seduta in un bagno azzurro dalle parti della Decima Avenue, a rimirare una vecchia tinozza stinta e macchiata che si riempiva d’acqua. Al suo orologio erano le due del mattino.

Lasciò che il proprio corpo esausto scivolasse pian piano dentro la vasca fumante, lieta del silenzio che l’ora tarda le regalava. Si scoprì certe brutte macchie sulle cosce e vicino a un capezzolo. Cinquemila crediti a fronte di sei lividi. Insomma eccola qua, l’indipendenza, pensò stancamente. E una lacrima le corse giù lungo il naso e cadde senza rumore nell’acqua tiepida.

11

«Caryl, chiamami Joe Bailey a Metro D.C.», disse Andie. Se c’era qualcuno capace di rintracciare Melanie Ryton, si trattava di Bailey. E poi le doveva un favore. Anzi, diversi favori.

«È in linea sulla cinque», annunciò Caryl.

Il monitor della scrivania sfarfallò, s’illuminò, mostrando la brutta faccia decisa di Bailey sorridere a Andie da dietro una ciambella.

«Ehilà, rossa, qual buon vento?»

«Una ragazza scomparsa. Mutante. Diciassette anni o giù di lì. Cinese-caucasica. Si chiama Melanie Ryton.»

«Bene.» Continuando a masticare una gomma, Bailey giocherellò con la tastiera. «Provenienza?»

«New Jersey.»

Bailey smise di masticare.

«Jersey? Non è nel mio giro. Non di recente, per lo meno.»

«Ha raccontato ai genitori di aver trovato un lavoro qui da noi.»

«E allora?»

«Loro non ci credono. Ho pensato che tu potessi controllare più in fretta di me.»

«Un minuto.» Si pulì le mani e volse le spalle allo schermo. Dopo un po’ tornò di fronte, scrollando il capo.

«Negativo. Nessuna Melanie Ryton da nessuna parte. Ho controllato le agenzie di collocamento, il carcere minorile, persino i casini. Nada.»

«Accidenti!»

«Credevo che i tuoi mutanti li tenessero tutti quanti tappati in casa sotto campane di vetro, i loro figli.»

«Né spiritoso. Né vero.»

«Speriamo comunque che stia all’erta, la bimba. Hai sentito di quello sceicco che vuole comprarsi una ragazza mutante per il suo harem?»

«No. Ma ci credo. Vedi se puoi tenermi il caso in evidenza, d’accordo?»

«Andie, ma lo sai di quanti ragazzi, genitori, nonni e animalini scomparsi debbo occuparmi ogni giorno?»

«Non lo faresti neppure per me, Joe?» Si sporse in avanti, scoccandogli a palpebre socchiuse un’occhiata malandrina.

Bailey sospirò. «Va bene.»

Una striscia gialla, contenente una comunicazione di Caryl, comparve attraverso la parte inferiore del monitor: INTERVISTA A HORNER COMINCIATA SU CANALE 12. URGENTE!

Andie diede un’occhiata al messaggio. «Joe, ti devo lasciare. Non dimenticarti di Melanie Ryton. E guarda che ti è rimasto un po’ di zucchero a velo sul mento.»

«Ricevuto. Ciao ciao, rossa.»

La sua immagine svanì e venne sostituita da quella del senatore Joseph Horner, che fissava dritto l’obiettivo sfoggiando un serafico sorriso tipo invito alla liturgia della domenica mattina. Poi tornò a volgersi verso il suo ospite, Randall Camphill.

«Come dicevo, Randy, dobbiamo stare molto attenti alla minaccia del supermutante», dichiarò Horner.

Ahiahi, pensò Andie. Che starà tramando questo figlio d’una cagna? Premette il pulsante di registrazione. La Jacobsen era in riunione, e avrebbe gradito di sicuro seguire l’intervista.

Camphill si girò in modo da offrire alla telecamera il suo profilo migliore. «Senatore», disse, «potrebbe spiegare al nostro pubblico che cosa intende per supermutante?»

«Un innaturale prodotto di eugenetica. Il risultato di un’empia adulterazione genetica. Il supermutante è un pericolo per tutti noi», dichiarò Horner con voce stridula. «Mentre siamo giunti ad accettare i nostri fratelli e sorelle mutanti che sono frutto, secondo quanto da essi stessi ci vien detto, di naturali sebbene malaugurati fenomeni, non possiamo invece ammettere, e dobbiamo impedire, la profanazione di esseri umani a scopi scientifici. E chi può dire, poi, se un supermutante, un prodotto di laboratorio, sia veramente umano?» Gli occhi di Horner scintillavano di legittima preoccupazione.

«E lei sostiene di aver visto questi cosiddetti supermutanti, durante il suo viaggio d’indagine in Brasile?»

«Be’, ecco, Randy, non è che proprio li abbia visti. Ma ho notato sintomi, ho colto indizi. E ripeto, dobbiamo essere cauti, rimanere all’erta. Perché già potrebbero essere fra noi. Solamente uno o due, all’inizio, null’altro che una goccia nel gran mare della popolazione. Ma, non dimentichiamolo, persino un immenso oceano ha inizio con una piccola goccia d’acqua. Occhi aperti, dunque, se non vogliamo farci tutti travolgere da questa incipiente inondazione.»

«Grazie, senatore Horner. Il tempo a nostra disposizione è purtroppo scaduto…»

Andie si distolse dallo schermo.

«Che il diavolo se lo porti», borbottò. «Non poteva mica stare zitto, quel bastardo…»

Era il caso di avvertire la Jacobsen mentre ancora si trovava in riunione? Certo, bisognava che replicasse, e alla svelta.

Il segnale di chiamata in attesa prese a lampeggiare sul monitor di Andie, ed in pochi istanti tutte le linee dell’ufficio si erano messe a trillare.

«Ora sono cavoli nostri!» esclamò Caryl precipitandosi al suo telemonitor. «Che diavolo gli racconto, a questi?»

«Nulla da dichiarare», suggerì Andie. «La senatrice è in riunione, digli che riprovino più tardi. Se insistono, prendi nome e numero. Registra tutte le chiamate, ma se fanno domande, mi raccomando, nessun commento.»

«D’accordo.»

Nella sua immaginazione, Andie poteva udire le parole di Horner riecheggiare centinaia, migliaia di volte da un capo all’altro della nazione, per il mondo intero, rimbombando da ogni videocabina a ogni angolo di strada, e provocando reazioni di isterismo. Come se la gente non fosse già abbastanza tesa, nei confronti dei mutanti. Le sommosse di vent’anni prima erano un persistente, orribile ricordo. La paura di chissà quale mostruoso supermutante avrebbe potuto creare il panico, forse peggio. Era questo che voleva Horner?