Выбрать главу

E se il senatore avesse avuto ragione? Se il mondo non fosse stato pronto a vedersela con una nuova razza di mutanti superiori? Le tornò in mente la memocassetta avuta a Rio da Skerry. Aveva previsto di mostrarla alla Jacobsen non appena tornate dal Brasile. Invece erano trascorse intere settimane. Gli impegni di lavoro l’avevano sopraffatta. E ogni volta che ripensava alla richiesta di Skerry, le pareva sempre di più come il frutto di fantasticherie paranoidi. Si era ripromessa di consegnare la memocassetta alla senatrice proprio quel pomeriggio. Chissà se faceva ancora in tempo?

Gli avvisatori di chiamata continuavano a lampeggiare nonostante gli sforzi affannosi di Caryl, che con rabbiose scrollate di capo andava rispondendo alle telefonate più in fretta che poteva.

«No… Spiacente… Per il momento non abbiamo dichiarazioni da fare… No… Assolutamente no…»

Tratto un respiro profondo, Andie digitò il codice di priorità assoluta per stanare la senatrice.

«E dove l’avresti trovata?» domandò la Jacobsen. Lo schermo era vuoto. Avevano esaminato per due volte l’intero contenuto della memocassetta.

Andie sospirò. «Le ho già spiegato…»

«Che a Rio sei stata avvicinata da un misterioso sconosciuto, il quale ha detto di conoscermi e ti ha passato la cassetta?…» La Jacobsen, gli occhi spalancati in una espressione d’incredulità, si lasciò andare contro lo schienale della poltroncina. «Ma non ti rendi conto che accettando questa roba avresti potuto comprometterci tutti quanti?»

«Sì, però…»

«Be’, suppongo che ormai sia troppo tardi. Comunque avresti dovuto avvertirmi immediatamente.»

Andie non l’aveva mai veduta in preda a una simile irritazione.

«Magari avrei dovuto lasciare che tu gettassi Horner fuori della finestra, a Rio. Accidenti a quell’idiota.»

«Veramente credevo che fosse proibito, leggere i pensieri senza autorizzazione», commentò Andie imporporandosi.

«Infatti. Ma tu emettevi con tale intensità che era impossibile non percepirti. A volte ci riescono persino i nonmutanti.» L’espressione della Jacobsen si ammorbidi in un sorriso. «Allora, perché non me ne hai parlato subito?»

«Perché credevo che ci spiassero.»

«Così era, probabilmente. Comunque avrei preferito saperlo prima. Adesso, supponendo che questo materiale sia attendibile, finalmente ce l’ho, la prova che cercavo… la certezza che in Brasile stanno conducendo esperimenti genetici su embrioni umani. Però mi tocca anche escogitare un sistema per ovviare al danno che ha fatto quel pazzo di Horner, cercando di mentire il meno possibile.»

«Secondo me sarebbe opportuno che domattina tenesse quella conferenza stampa», osservò Andie. «Prima che la situazione peggiori. Solo oggi mi è toccato attivare due risponditori automatici, in ufficio.»

La Jacobsen si accigliò. «Procedura alquanto insolita. Innanzitutto dovrei fare rapporto al Congresso. E consegnare una copia di questa memocassetta al Consiglio dei mutanti. Ad ogni modo, penso che tu abbia ragione. Horner ha appiccato un pericolosissimo incendio, e la cosa più urgente da fare è spegnerlo.»

«Ho prenotato la sala presidenziale per le dieci di domattina.»

«Ottimo. Ti spiacerebbe chiamare Craddick sulla mia linea privata? Poi rilascia un comunicato stampa a tutti i soliti canali d’informazione.»

Il resto della giornata trascorse sull’onda di una confusa frenesia, mentre Andie fissava interviste per il dopo conferenza, teneva testa ad altre telefonate e faceva galoppare tutto il personale dell’ufficio. Coi nervi a fior di pelle, e un poco più irritata ogni volta che qualcuno pronunciava il termine «supermutante».

Alle sei e mezzo telefonò Karim per rammentarle che dovevano uscire a cena insieme. Pur a malincuore, Andie dovette rinunciare. Alle nove e mezzo si ricordò di farsi mandare su in ufficio un tramezzino. Due ore dopo si costrinse a tornare a casa. Livia l’accolse sulla soglia a suon di stizzosi gnaulii abissini.

«Scusami tanto, amorosita. Ho avuto un giornataccia. Sì, lo so, lo so che hai fame.»

Calciò via le scarpe, godendosi la voluttuosa sensazione della folta moquette azzurra sotto i piedi doloranti. Diede da mangiare all’indignata gatta, cercando di farsi perdonare con una bella porzione fuori ordinanza, poi andò a sistemarsi sul divano per ripassare gli appunti in vista della conferenza stampa dell’indomani. Livia le si acciambellò accanto, facendo le fusa soddisfatta. Pian piano, la testa di Andie si chinò in avanti, le sue palpebre si chiusero. Ebbe un sonno inquieto, pieno di angosciosi sogni in cui mostri di Frankenstein dagli occhi d’oro la incalzavano, sospingendola verso chiese le cui porte si spalancavano per mostrare file e file di aguzzi denti sogghignanti.

Nell’intervallo fra uno spettacolo e l’altro, Melanie rimase appoggiata al bar a guardare la folla dello Star Chamber. Due uomini elegantemente abbigliati avevano l’aria di poter elargire mance generose. Vicino a loro c’era un gruppo di turisti coreani; gente che non lesinava mai le mance, e per di più neanche stringeva troppo forte. Individuò una coppia di clienti fissi e si ripromise di tenersi alla larga dal cascatore dai capelli grigi, che tentava continuamente di strapparle via le freccette.

In due settimane di lavoro al club, Melanie aveva imparato alla svelta chi evitare e chi al contrario incoraggiare. I cascatori, in genere, andavano sul pesante; nella loro attività doveva esserci qualcosa che li rendeva aggressivi. I testatici, invece, erano innocui. Ridacchiavano, la pizzicavano, e a volte, quando si ricordavano di dare la mancia, non erano per nulla spilorci. Scrutò il lato opposto della sala. Oh, no… Seduto a un tavolino, da solo, se ne stava quel ridicolo balordo di Arnold Tamlin, con lo sguardo più appannato del solito.

«Guarda guarda, il tuo moroso sempre all’erta», commentò Gwen.

«Ma non rompere.»

Fin da quella prima sera al bar, quando era stata troppo ingenua ed inesperta per schivarne le profferte, Melanie aveva mantenuto le distanze dalla focosa testa rossa. Ma adesso era molto meno sprovveduta. Quando si svegliava in piena notte, fradicia di sudore, dagli ingarbugliati sogni in cui cercava disperatamente di sottrarsi a mani carezzanti e bocche risucchianti, si diceva che doveva avere bevuto troppo. Incubi. Erano quegli incubi che le facevano martellare il cuore. Era paura, e non desiderio. Certo.

Durante il secondo spettacolo, Melanie fece in modo di evitare i brutali brancicamenti dei cascatori dedicando ogni sua attenzione ai coreani. E costoro le misero tanti di quei gettoni sotto la cintura, che lei non osò quasi levarglisi dinanzi. Danzò con impegno, divertendosi a stuzzicare due testatici, e le riuscì anche di sottrarsi alle attenzioni di quel disgustoso Tamlin. Che razza di babbeo. Concluse il numero con una piroetta e pensò bene di uscire a farsi uno spinello.

L’aria notturna si andava rinfrescando, comunque il sudore si asciugò alla svelta sulla sua pelle. Washington era una città incredibilmente afosa, in luglio, ma per lo meno la sera portava un po’ di refrigerio. Se ne restò appoggiata accanto alla porta di servizio del club, pensando alla sua famiglia. Chissà come ci sarebbero rimasti, se avessero saputo quanti soldi stava guadagnando! Melanie provò un istante di incondizionata soddisfazione. Non aveva nessun bisogno, di loro. Se la cavava benissimo da sola.

«Mi… mi scusi… Signorina Venere?.,.»

Mio Dio, no, di nuovo quel Tamlin. L’aveva seguita fuori del locale, e adesso campeggiava sulla soglia, ostruendola. Melanie indietreggiò lentamente, sforzandosi di sorridere.

«Sì?»

«Ecco, le volevo dire… sapesse quanto mi piace, vederla danzare!» Le si fece incontro, guardandola fisso negli occhi.