«Be’, grazie.»
«E mi chiedevo… sì, se non sarebbe disposta a ballare solo per me…» Era sempre più vicino, e tendeva le mani verso di lei.
«Oh, Arnold, che devo dirle… Il fatto è che sono davvero stanca.» Continuò a indietreggiare, cercando di aggirarlo per raggiungere la porta. Perché Dick non mandava qualcuno fuori a cercarla? Il suo intervallo era finito.
«Danza solo per me, Venere. Levita, su, e danza fra le nubi soltanto per me.» L’afferrò per le spalle con stretta brutale, affondandole le dita nella carne.
«Ma Arnold, io non sono capace di levitare.» Si contorse, tentando di liberarsi. «Per favore, lasciami.»
«Ma certo che sei capace. Fallo per me, ora. Tutti i mutanti sono capaci di levitare, no?»
«Lasciami in pace, mi fai male.»
Parve che l’altro neppure la sentisse. Mentre la sospingeva, Melanie cercò di prenderlo a calci negli stinchi, ma incappò in una buca del selciato, perse l’equilibrio, capitombolò all’indietro e cadde al suolo supina, trascinandoselo addosso. Tamlin l’afferrò alla gola con entrambe le mani, incominciando a stringere.
«Levita, maledetta! Dannata mutante! Schifosa! Levita o ti ammazzo!»
Melanie cercò di urlare, benché sapesse che il frastuono del bar avrebbe coperto le sue grida e qualunque altro rumore esterno. Si batté disperatamente, aggrappandosi alle mani di lui mentre il ruggito che le esplodeva nelle orecchie diveniva più forte. Sempre più forte. La stretta di Tamlin era troppo tenace, per lei. Lottò, boccheggiando, per riuscire a respirare, mentre lampi colorati le pulsavano sotto le palpebre serrate. Poi i colori incominciarono a sbiadire. Respirare le parve uno sforzo insostenibile. E desiderò lasciarsi andare. Ma c’era qualcosa che la tratteneva.
«Signorina? Si sente bene?»
Qualcuno la stava scuotendo. Melanie riaprì gli occhi. Un giovane dai lunghi capelli castani, incarnato olivastro, intensi occhi color nocciola, era chino su di lei, e la fissava preoccupato. Lentamente, guardinga, Melanie si tirò su a sedere.
«Dov’è?»
«Se l’è filata quando l’ho colpito.»
«Dio mio», balbettò Melanie tastandosi la gola. «Credo che lei mi abbia salvato la vita.»
«Be’, mica potevo star lì a guardare intanto che quello la strozzava.» L’aiutò a rimettersi in piedi, sorreggendola attorno alle spalle con un braccio vigoroso e delicato a un tempo, e Melanie, piena di sollievo e gratitudine, accettò volentieri quel sostegno premuroso. L’aveva riconosciuto per uno degli uomini d’affari notati in sala.
«Come si sente? Vuole che la porti da un dottore?»
Lei scosse la testa. «No no, ora sto bene.»
«Allora mi permetta di accompagnarla a casa. Il suo aggressore potrebbe essere appostato qui nei pressi, potrebbe seguirla.»
«Dice sul serio?»
«Tutto è possibile, con un pazzo come quello.»
«Ma lei chi è?»
«Mi chiamo Benjamin. Benjamin Cariddi. Ben.»
Gli strinse la mano, sentendosi un po’ ridicola. «Io sono Melanie.»
«In effetti avevo qualche dubbio, su Venere», le sorrise di traverso.
Lei ricambiò il sorriso. «Dammi solo cinque minuti… giusto il tempo di cambiarmi, e di avvertire che per stasera ho chiuso.»
«Ci vediamo all’ingresso principale.»
Lo trovò ad attenderla dentro un lucido, affusolato libratore color notte. La tappezzeria pareva cuoio grigio. Probabilmente una buona imitazione, pensò Melanie.
«Fame?» le domandò.
«Sì.»
«Diciamo hamburger?»
«Autentici? Magari.»
«Allora conosco un posticino favoloso.» Svoltò per una via trasversale dirigendosi verso l’ingresso dell’autostrada, digitò un codice sul cruscotto, si rilassò contro lo schienale.
Melanie sgranò tanto d’occhi sulla plancia. «Completamente roboguidato?»
«Più o meno.»
«Ma non sono terribilmente cari, questi libratori?»
Ben le sorrise. «Si capisce.»
Melanie arrossì. Smettila di fare domande cretine, si disse, e goditi il panorama.
I dintorni, una tranquilla zona residenziale, le erano ignoti. Il libratore lasciò l’autostrada alla prima uscita, sfrecciando poi a fianco di ben curati tappeti erbosi e case eleganti circondate da luci smorzate. Un’altra svolta, ed eccoli procedere veloci fra due ali sontuose di slanciati edifici. Il libratore si arrestò dinanzi a un’imponente costruzione verde la cui cima si perdeva nella nebbia e nell’oscurità, poi venne inghiottito da un montacarichi che in pochi istanti scese a depositarlo, con un fremito stridente, nelle profondità di un parcheggio sotterraneo.
«Tutti a terra», disse Ben, aprendo lo sportello a Melanie.
«Dove siamo?»
«A casa mia.»
«Ma non dovevamo andarci a fare un hamburger?»
«Esatto. Qui da me si mangiano i migliori hamburger della zona.» La guidò sorridendo verso un altro ascensore. «Ventitreesimo piano, per piacere.»
Melanie non ebbe neppure il tempo di contarli, quei piani, che già la fulminea cabina era giunta a destinazione. Ben le fece strada lungo un corridoio grigio ricoperto di folta moquette. Il palmo della sua mano, a contatto col sensore di un pomello, diede loro accesso ad un arioso appartamento su due livelli. Il vestibolo-soggiorno appariva profusamente arredato di piante verdi e bassi divani in pelle color bruno fulvo.
«Mettiti pure comoda», le disse, e scomparve in cucina.
Le pareti erano foderate di ricche stoffe in toni verdi e dorati. Un corridoio metteva in comunicazione l’ingresso con tre camere da letto, un bagno e un piccolo studio. L’ultima camera, la più ampia, sfoggiava nella penombra un lussuoso rivestimento di pannelli in legno scuro. La parete di fondo ospitava un ascensore interno che doveva probabilmente condurre al secondo piano.
L’aroma della carne alla griglia giungeva ora aleggiando fino a Melanie.
«La cena è servita», annunciò da un altoparlante la voce di Ben.
La cucina lunga e stretta, tappezzata di lucidi mobili bianchi, sfociava in un vano circolare dov’era sistemata una tavola imbandita con sottili piatti neri e posate scintillanti. Scodellando generose mestolate di salsa dentro una ciotola attigua al vassoio degli hamburger, Ben le indicò una sedia.
«Coraggio, accomodati. Vediamo se ti piace la mia ricetta.»
Melanie osservò i piatti luccicanti, i bicchieri sfavillanti, l’argenteria ordinatamente disposta. Aveva mangiato un po’ troppo spesso a base di soia, ultimamente. Afferrato un hamburger, gli affibbiò un morso avido. Poi un altro.
«Davvero squisito», apprezzò Melanie fra un boccone e l’altro. Si era scordata di quanto fosse buono il sapore della carne vera. Aggiunse un po’ di salsa; pareva a base di pomodoro e cipolla, con un deciso gusto dolceacidulo.
«Non mi piace promettere a vuoto», replicò Ben. Bevve un sorso di birra, soppesando Melanie con sguardo indagatore. «Com’è che sei capitata a lavorare in un posto del genere?»
«Be’, è un lavoro come un altro. Ne avevo bisogno.»
«I tuoi dove stanno?»
«Sono morti.» Melanie cercò di concentrarsi sul cibo.
«Da dove vieni?»
«New York.» Prese un altro hamburger.
«Ma non hai qualche membro del clan che possa darti una mano?»
Melanie smise di masticare e lo fissò. «E tu che ne sai, dei clan?»
«Ho visto un docuvideo in cui si diceva che i mutanti hanno riunioni di clan e roba del genere.»
«Io non me lo ricordo mica, un video così.»
Ben si strinse nelle spalle. «Mah, può darsi che a New York non l’abbiano programmato.»
«Già, può darsi.» Melanie inghiottì l’ultimo boccone e si pulì le labbra. «Be’, tante grazie per la cena.»
Si alzò in fretta, afferrò la borsa e si diresse all’uscita.
«Ma dove stai andando?» s’informò Ben rincorrendola.