«A casa mia.»
«Una stanza in qualche alberghetto di quart’ordine, senza dubbio.»
«Senza dubbio.» Melanie cercò di aprire la porta, ma il battente non si mosse. «Fammi uscire.»
Ben le si sporse accanto a digitare un codice sul quadro di controllo. La porta si aprì silenziosa.
«A quest’ora è impossibile che trovi un taxi.»
«Vuol dire che prenderò la metropolitana.»
«Niente stazioni, da queste parti. Dovresti fare chilometri a piedi, e non sai nemmeno dove ti trovi.» Si appoggiò allo stipite. «Forse non è poi un’idea così buona andare a cena con degli sconosciuti, eh?» Le rivolse un altro di quei suoi sorrisetti di traverso, e il cuore di Melanie prese a martellare. In che razza di pasticcio era andata a cacciarsi?
Ben scosse la testa. «Stai tranquilla. Sono inoffensivo. Sei libera di andartene, se vuoi. O di restare.»
«E perché dovrei restare?»
«Perché questo è un posto più decente di quello in cui dormi di solito. Perché se rimani vedrai che alla porta della tua camera c’è una serratura che puoi azionare solo tu. Perché hai bisogno d’aiuto, e io te lo posso dare.»
«Per esempio?»
«Procurandoti un lavoro migliore, tanto per incominciare.»
«E da me cosa vorresti, in cambio?»
Sul volto di Ben rispuntò il solito sorriso. «Ci penserò. Ma non stasera. Dai, su, che è tardi.»
Melanie si lasciò prendere per un braccio e riportare nell’appartamento. Ben richiuse il portoncino, quindi fece scorrere lo sportello di un armadio a muro, mettendo in mostra diversi ripiani carichi di lenzuola e asciugamani azzurri.
«Prendi pure tutto quel che ti serve. La tua stanza è la prima porta a destra. Ha un bagno privato.»
Lei indugiò a fissarlo, esitante.
Sospirando, Ben entrò nella camera. Digitò un codice al terminale nell’angolo. Lo schermo rimase inerte, ma dopo qualche secondo si udì la monotona cadenza di una voce artificiale.
«Siete in contatto col dipartimento di Polizia del District of Columbia, sezione meridionale. In caso di emergenza, chiamate il sette-tre-tre; certificati penali al sei-due-due; squadra antidroga al…» Ben interruppe il contatto, poi spinse un pulsante.
«Ecco fatto. L’ho messo in ripetizione automatica. Possono localizzare una chiamata in tre secondi, e ad ogni modo dentro questo cassetto qui in alto c’è il mio indirizzo, nel caso ti venisse voglia di denunciarmi per eccessiva gentilezza verso gli ospiti di passaggio.»
«Non capisco», disse Melanie.
«Che cosa non capisci?»
«Nemmeno ti conosco. Perché dovresti farmi tutti questi favori?»
Ben sorrise. «Mi è capitato di trovarmi stasera in quel locale per il semplice motivo che un mio collega proveniente dal Tennessee aveva voglia di assistere a un po’ di danza orientale. E il tuo numero mi è piaciuto sul serio.» Fece una smorfia. «Però non mi è piaciuto per niente vedere quello psicopatico che cercava di strozzarti. E non posso mica essere lì tutte le sere a proteggerti.» Le accarezzò una guancia. «Meriti di meglio, questo è certo.»
Prima i complimenti, pensò Melanie, e dopo la seduzione. E va bene, vediamo un po’ come va a finire. Ma sul volto di lui c’era un’espressione strana. Insomma, si decideva a baciarla oppure no?
Lui le seguì con l’indice, delicatamente, la curva delle labbra. «Sei davvero una ragazza incantevole, sai? E io non voglio che ti accada nulla di male.» Lasciò ricadere la mano e arretrò di un passo.
«Nel caso sentissi rumori strani in piena notte, non ti devi preoccupare. Mi capita spesso di lavorare alle ore più assurde. Faccio l’esportatore di generi di lusso, e ho corrispondenti in tutto il mondo. E adesso cerca di riposare un po’.» Attraversò il corridoio, entrò in camera sua e richiuse la porta.
Melanie rimase immobile sulla soglia, incredula. Vai un po’ a capire cosa gli frulla per la testa, a quello. Le aveva salvato la vita, le aveva dato da mangiare, adesso le offriva persino asilo. E non aveva neppure cercato di farle qualche avance. Strano davvero. Annusò le lenzuola a fiori, gustando il loro profumo di pulito. Il letto l’attraeva irresistibilmente. Prima di tutto, comunque, chiuse a chiave la porta della camera, e controllò due volte la serratura.
12
Andie si svegliò di soprassalto. Stava distesa sul divano, ancora completamente vestita. L’orologio a muro l’avvertì che erano le sette del mattino. Merda! Fra tre ore c’era la conferenza stampa della Jacobsen! Saltò giù e corse in bagno. Due minuti sotto la doccia, cinque di fronte allo specchio, altri cinque impiegati a infilarsi nel completo in seta grigia e a raccogliersi i capelli all’indietro in una crocchia austera. Poi acchiappò la videovaligetta e si precipitò a prendere la metropolitana, augurandosi che fosse in orario. La fortuna era dalla sua, e Andie riuscì a raggiungere l’ufficio dieci minuti prima che con lo scoccare delle otto e un quarto arrivasse la Jacobsen, cosicché le rimase giusto il tempo di trasferire gli appunti al terminale della senatrice.
Caryl sollevò il capo dal monitor e strabuzzò gli occhi. «Sono qui da un’ora, e già novanta chiamate.»
Mentre parlava ne giunse un’altra. La prese il robotele, e l’immagine registrata di Andie garantì all’interlocutore che la senatrice Jacobsen avrebbe visionato la telefonata, invitandolo quindi a lasciare il suo messaggio dopo il segnale acustico.
Tranquilla, sicura di sé, pronta all’azione, Eleanor Jacobsen fece la sua comparsa a passo vivace con indosso un abito color avorio.
«Tutto sotto controllo?»
«Finora sì. Gli appunti sono pronti.»
La senatrice annuì e scomparve nel suo ufficio.
Entro le otto e mezzo, tutto il personale era in sede. Andie cominciò a sentirsi più ottimista. L’avrebbero spuntata. Dovevano spuntarla.
Quindici minuti prima che avesse inizio la conferenza stampa, Andie scese nella sala presidenziale a controllare i microfoni. Tutti e cinque al loro posto. Osservò i giornalisti presentarsi alla spicciolata, in perfetto orario.
Accennò a Rebecca Hegen e sorrise a Tim Rogers. In effetti erano tutte facce conosciute, tranne una. Un giovanotto dai corti capelli neri, pallido in volto, che portava un paio di antiquati occhiali dalla montatura in tartaruga, si fece strada con piglio deciso fra gli altri giornalisti, andando a occupare senza indugio una poltroncina nel bel mezzo della seconda fila e guadagnandosi un’occhiataccia da almeno uno dei colleghi, che probabilmente, pensò Andie, aveva avuto intenzione di riservare proprio quel posto a qualcun altro. Ma il giovanotto occhialuto non fece alcun caso al disappunto del suo vicino. Fissò con grande attenzione il tavolo al quale si sarebbe seduta la senatrice Jacobsen. Poi abbassò il capo e prese a trafficare con una videovaligetta in pelle.
Preferirei andare a scavar fossati piuttosto che fare la giornalista in una tivù via cavo, pensò Andie. C’è una concorrenza spietata. Qualunque novellino può farsi avanti e soffiarti il posto. A giudicare dalle apparenze, quel giovanotto aveva dinanzi a sé una promettente carriera. Si ripromise di informarsi sul suo conto, più tardi.
All’ingresso della Jacobsen da una porta laterale, il cicaleccio che riempiva la sala scemò notevolmente. Eleanor rivolse ad Andie un lieve cenno del capo e andò a piazzarsi sul podio.
«È mia intenzione apportare alcuni chiarimenti a quanto affermato dal mio collega senatore Horner in correlazione alle dicerie attualmente circolanti sul cosiddetto supermutante», esordì Eleanor Jacobsen. Appariva lucida e sicura, perfettamente padrona della situazione. Andie cominciò a rilassarsi.
«Non dobbiamo consentire all’emotività di recare intralcio ai fatti. E, al momento, i fatti puri e semplici sono che non sussiste alcuna prova circa l’effettuazione di qualsivoglia genere di esperimento genetico del tipo di quelli cui ha fatto riferimento il senatore Horner. E, analogamente, nessuna sia pur minima prova è stata rinvenuta a favore dell’esistenza di una qualche sorta di superuomo mutante. Sospetto dunque che il mio esimio collega possa essere rimasto vittima di una mistificazione, e lo invito a rivelare, a me o ai rappresentanti degli organi di informazione, la natura e identità delle sue fonti.»