Sullo schermo stavano intervistando un vecchio bacucco di senatore. E cosa diceva… qualcosa a proposito dei supermutanti? Mentre Melanie guardava, la scena cambiò, passando a mostrare una sala conferenze sul cui pavimento stava distesa una donna bionda, snella, dagli occhi d’oro. Melanie smise di masticare. Ma quella non era Eleanor Jacobsen? Suo padre ne parlava di continuo. Ora che stava dicendo il commentatore?
«… uccisa ieri. Il presunto assassino è stato a sua volta rinvenuto cadavere oggi a Washington, nella cella dov’era custodito. I capi delle varie comunità mutanti sparse per tutto il Paese stanno confluendo verso la sede governativa dello Stato dell’Oregon, dove verrà discussa la successione alla Jacobsen…»
Morta? Non era possibile.
Sullo schermo si vedeva ora un gruppo di aggrondati cronisti televisivi in un grigioscuro abbigliamento di circostanza.
«Allen», osservò una giornalista dai capelli grigi, «è mia opinione che a seguito di questa tragedia possiamo aspettarci un incremento di attività politica, da parte dei mutanti.»
«È molto probabile, Sarah», convenne un collega biondo. «Si nutre inoltre il timore che questo assassinio rappresenti soltanto l’inizio di un piano su vasta scala inteso alla eliminazione di tutti i mutanti che ricoprono cariche pubbliche.»
«Quei maledetti mutanti se la sono andata a cercare, ve lo dico io», borbottò, guatando lo schermo, un uomo anziano con profonde rughe attorno agli occhi.
Melanie chinò svelta la testa, inforcò gli occhiali scuri e si allontanò dal piccolo capannello assembratosi davanti al monitor. Provava la sensazione che tutti la osservassero, che tutti le guardassero gli occhi, però si disse che nessuno, probabilmente, l’aveva notata. Intonò fra sé, per tre volte di seguito, un canto rasserenante, poi tornò in gran fretta al lavoro.
Le lampade installate lungo il corridoio dell’ospedale sfavillavano con impersonale gaiezza. Andie prese posto su una sedia gialla accanto alla porta del pronto soccorso, trastullandosi distrattamente con qualche ciocca ribelle sfuggita alla costrizione della crocchia. Le sembrava di non aver dormito per giorni e giorni, aveva la sensazione di essere nata, e di essere destinata a morire, dentro quel medesimo formale abito di seta grigia. L’orologio le comunicò che erano le 3.30 del mattino. Poi le 3.31. Poi le 3.32. Si stropicciò gli occhi. La Valedrina offertale da un medico stava incominciando a fare effetto, e il doloroso stordimento si andava stemperando in un piacevole rimescolio.
Si lasciò andare all’indietro contro la parete, chiuse gli occhi, poggiò la testa, e di nuovo si trovò a ripercorrere gli avvenimenti della giornata come se stesse visionando una registrazione televisiva.
Non riusciva ancora a crederci. Si era trovata lì a due passi. Forse sarebbe riuscita a salvarla. Rivide la scena e immaginò se stessa nell’atto di affrontare Tamlin prima che puntasse l’arma, afferrandolo, distogliendolo, interponendo il proprio corpo sulla traiettoria del raggio mortale.
Un incubo. Spaventoso. Grottesco. Interminabile.
Quando Tamlin era stato trovato cadavere nella sua cella, Andie aveva incominciato a pensare che il mondo fosse davvero completamente impazzito. Nonostante la continua sorveglianza video, l’uomo s’era d’un tratto stretta la testa fra le mani, era crollato a terra, era morto. Le prime risultanze dell’autopsia parlavano di massiccia emorragia cerebrale. Ma ci sarebbero voluti diversi giorni per reperire la documentazione medica di Tamlin, studiare i suoi precedenti sanitari, e decidere se si trattava di un decesso per cause naturali oppure no.
«Dormi sempre, quando sei al lavoro?» domandò una voce familiare.
Andie aprì gli occhi. Un giovanotto barbuto, alto e muscoloso, con pantaloni militari da lavoro e una maglietta bianca decorata in giapponese, era in piedi accanto a lei.
«Skerry?»
«Per servirti.»
Andie si tirò su. «Ma come fai ad avere un’aria così allegra?»
«Abitudine. E tu come te la passi?»
«Non bene.»
«Meglio di molti altri, insomma.» Le si sedette a fianco. «Immagino che tu fossi lì, vero?»
«E come no. Un posto in prima fila», rispose Andie con voce tremante.
«Calmati.» Le pose una mano su una spalla. «Ascolta, mi rendo conto che per te è stata dura, ma abbiamo lasciato una questione in sospeso, e non si può più rimandarla.»
«Che vuoi dire?»
«Quel regalino che ti ho fatto a Rio. Bisogna che tu me lo ridia.»
«Stasera? E per farne cosa?»
«Ora che Eleanor è morta, tocca a me consegnarlo al Consiglio dei mutanti.»
«Mi pareva che non ti vedessero di buon occhio.»
«Infatti. Ma non c’è nessun altro che possa assumersi l’incombenza.»
Andie trasse un respiro profondo, scossa dall’idea pazzesca che le era balenata in mente.
«Skerry, lascialo fare a me», azzardò. «Voglio occuparmene io. Per Eleanor.»
«Ti ha dato di volta il cervello?»
«No, Skerry. Ti prego. Sono stata a Rio insieme a Eleanor. Su questa faccenda ne so quanto ne sapeva lei. Forse più. E ho ancora qualche conoscenza, fra i politici.»
«Alle riunioni del Consiglio non sono ammessi i nonmutanti.»
«Ma almeno proviamo.»
«Non ti faranno entrare.»
«Nemmeno insieme a te?»
Skerry restò un attimo in silenzio. «Be’, insieme a me forse sì.» Gli angoli della bocca cominciarono a incresparglisi in un sorriso. «E va bene. Non so proprio cosa ne potremo cavare di positivo, danni però non dovrebbe farne. Sono già talmente in urto, col clan, che non sto certo a preoccuparmi. Al massimo potranno bandirmi o appiopparmi un biasimo ufficiale.»
«Ma non si rendono conto di quel che stai cercando di fare per loro?»
Skerry crollò il capo. Il suo sorriso si irrigidì. «I metodi mutanti sono lenti, ostinati, e seguono regole molto rigide. Le regole del nostro Libro. Chi non vive secondo il Libro, è un fuorilegge.»
«Be’, fuorilegge o no, li costringeremo ad ascoltarci!» Per la prima volta in tante ore, Andie sentì la fiducia rinascerle dentro.
«Allora, dov’è la memocassetta?»
«Dentro la mia scrivania.»
«Possiamo andarla a prendere?»
«Adesso?» Andie si strinse nelle spalle. «Be’, sì, certo… ma perché tanta fretta?»
«Voglio solo evitare di perdere altro tempo, tutto qui.»
Andie sospirò. Si sentiva esausta, ma lo sguardo di lui non le dava tregua.
«D’accordo, andiamo.»
L’edificio era illuminato solo a metà e praticamente deserto. Giunti a destinazione, Andie accese le luci ed aprì subito la sua scrivania.
«Per la miseria!» esclamò. «Eppure avrei giurato che fosse qui…»
Skerry si sporse a guardare. «Cosa c’è che non va?»
«Ero convinta di averla lasciata sul fondo dello schedario. Di solito lo tengo chiuso.»
«Buona idea. Però non c’è?»
«Già. Ricordo benissimo che dopo averla fatta vedere a Eleanor l’avevo rimessa a posto.»
«Guarda negli altri cassetti.»
Andie rivoltò la scrivania da capo a fondo. Poi setacciò anche il posto di Caryl. Niente.
Si volse a fronteggiare Skerry. Il giovane era scuro in volto.
«E la scrivania di Eleanor?…»
«Che debbo dirti? Proviamo.»
Seppure alquanto controvoglia, Andie entrò nell’ufficio privato della defunta senatrice. Skerry forzò la serratura situata sul cassetto in alto, e tutto il resto si aprì facilmente. Dieci minuti di ricerca non approdarono a nulla.
«Merda.» Skerry si lasciò andare nella poltrona di Eleanor. Andie sedette sul pavimento, poggiando la testa contro il fianco della scrivania.
«E adesso?»