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No.

Andare subito alla polizia. Ecco quello che doveva fare.

La porta dell’ascensore si aprì, e Mel corse alla vettura. Mentre allungava una mano verso la portiera, si sentì afferrare per il polso.

«Dimmi un po’, che intenzioni hai?»

«Ben!…» ansimò. «Io… ecco, volevo andare a fare compere.»

«Senza dirmi nulla? Come mai sei così pallida?» La fissò da vicino, con espressione dura. «Se non avessi preso l’ascensore rapido dall’appartamento, non avrei fatto in tempo. Avanti, torna su con me.»

«Non mi va.» Cercava di opporre resistenza, ma lui continuava a trascinarla lentamente verso l’ascensore.

«Ti voglio parlare del viaggetto che faremo.»

La porta dell’ascensore era aperta. Lui prese a tirarla dentro. Lei vide qualcosa di argenteo scintillargli in mano, e capì che si trattava di un’ipodermica.

«Lasciami andare, bastardo!»

Scalciò disperatamente, raggiungendolo all’inguine con una violenta ginocchiata. Ben si accasciò gemendo.

«Pensavo che tu mi amassi!» Gli allungò un altro calcio, ma lui l’afferrò per una caviglia e la fece cadere a terra.

«Stupida cagna mutante!» La schiaffeggiò in pieno viso. «Ma che cosa credevi, che fottere fosse amare?» Tese una mano per afferrare la siringa che giaceva sul pavimento dell’ascensore. Anche Melanie si gettò all’arrembaggio; la frenetica esaltazione del momento le diede forza e rapidità, e fu invece la sua mano a serrarsi sulla siringa, un istante prima che la prendesse lui. Tremando, gli conficcò l’ago nel collo, e udì il lieve sibilo dello stantuffo automatico che scattava iniettando il liquido. I lineamenti di Ben si rilassarono. I suoi occhi si chiusero ed egli stramazzò al suolo privo di sensi.

Frugandogli senza ritegno nelle tasche in cerca di denaro, trovò il portafoglio. Conteneva abbastanza da consentirle di tirare avanti per un mese. Raggiunse il libratore, lo aprì, si mise alla guida. Avrebbe dovuto sbarazzarsene alla svelta, ma per lo meno le sarebbe servito per arrivare alla prima fermata del metro. Poi avrebbe preso la navetta.

Entrò a marcia indietro nel montacarichi, attese che il libratore venisse sollevato al livello stradale, e diede tutto gas lanciandosi verso la libertà.

15

Michael adocchiò avidamente, sull’albero che sorgeva nel prato di fronte a casa, una grossa susina color rosso borgogna. Settembre: la stagione ideale, per la frutta. Colse la sugosa tentazione, quindi spinse la porta per entrare.

La casa era deserta. Diede un bel morso alla susina, si soffermò a raccogliere la sua sacca da ginnastica, poi andò a controllare il monitor della corrispondenza in arrivo. Trovò il consueto assortimento di richieste e contratti. Prese mentalmente nota di ultimare, l’indomani, la trattativa Haytel. L’avvisatore di messaggi continuava a lampeggiare. Premette il pulsante di riproduzione, e sullo schermo prese vita con un guizzo l’immagine di sua madre.

«Saremo a casa fra due giorni», disse. «Le vampate di tuo padre sembrano calmarsi, ma gli serve ancora un po’ di riposo. Ci vediamo martedì.»

Michael finì di masticare e gettò il nocciolo della susina dentro lo scaricaimmondizie accanto alla porta. Aveva creduto che suo padre fosse troppo giovane per incominciare già a soffrire di vampate, ma evidentemente s’era sbagliato. La condizione mutante recava in sé una dose di ambiguità con la quale non era per nulla facile convivere.

Passato in cucina, controllò rapidamente cosa offriva la dispensa, e scelse crocchette ai funghi piccanti e maiale liofilizzato. L’estrattore del frigorifero entrò in funzione. Non appena la suoneria ebbe trillato, Michael fece levitare la confezione scongelata dentro il forno a convezione, regolò il temporizzatore, e lasciò cuocere per tre minuti.

Chissà che sensazione dava, si domandò apparecchiando, dover contare solamente sulle proprie mani per fare ogni cosa. Probabilmente di lentezza, più che altro. Scelse nel bar una Red Jack e indugiò a sorseggiarla, nell’attesa che il pranzo si raffreddasse un po’.

Attivò il video di cucina, predisponendo la sintonia automatica su una pausa di dieci secondi. Il monitor, obbediente, prese a sciorinare in sequenza un gruppo di danzatori somatodipinti in giallo e nero; film vecchi di almeno vent’anni, pieni di automobili antiquate, sparatorie e donne urlanti; talk show nei quali giornalisti in immancabile abito grigioscuro propinavano cronache da tutto il mondo ventiquattr’ore al giorno; e le aste televisive, un barbaglio di caleidoscopiche immagini di superlibratori e abitazioni galleggianti, condomini sulla Luna e fisioprotesi robotiche, intensificatori orgasmici a energia solare e interventi sensazionali di chirurgia plastica. Michael apprese che l’operazione della settimana riguardava la correzione del mento.

Diede un morso a una crocchetta, assaporando il violento gusto del peperoncino che gli fece bruciare lingua e palato. A dire il vero aveva voglia di una cosa sola: vedere Kelly. Ma lei era via con suo padre per motivi di lavoro, e non sarebbe tornata fino alla fine della settimana. E quindi lui doveva starsene solo con il video. Jimmy, per lo meno, passava la notte dai cugini.

Poggiando i piedi sull’idropoltrona che gli stava dinanzi, e lasciandosi comodamente sprofondare tra i fluidocuscini azzurri, rimase a osservare lo schermo che guizzava e cambiava, balenava e trascorreva. Le immagini di un rubrinotiziario attrassero la sua attenzione, quindi si sintonizzò. Un piacente giovanotto dalla folta capigliatura castana, sorriso gagliardo e luminosi occhi d’oro campeggiava sul monitor in tridimensionale olovisione.

Stephen Jeffers, pensò Michael. La nuova speranza dei mutanti. In tivù è ancora più bello. Che mento strabiliante. Chissà se ha fatto la plastica anche lui. Michael evocò un altro canale e lì si fermò, colpito dall’aspetto familiare del videocronista.

«Non dirmi che ti ricordo qualcuno», l’apostrofò quello guardandolo con espressione corrucciata. «Sveglia, ragazzo.»

Michael ammiccò sorpreso. Poi sorrise. «Skerry, nonostante tutto non è così difficile riconoscerti. Dove sei?»

«Più vicino di quanto credi. Ascolta, Michael, ti devo parlare.»

«Sei ancora incavolato nero per quello che è successo all’assemblea?»

«Diciamo che sono dispiaciuto. È per questo che ho bisogno di vederti.»

«Quando?»

«Facciamo subito?»

«Va bene. Dove?»

«Conosci l’Hardwired

«A Mountain Side? Certo.»

«Ci vediamo là fra un quarto d’ora.» L’immagine vacillò, e d’improviso al giornalista vennero i capelli biondi e gli occhi azzurri. Skerry se n’era andato. Michael diede il colpo di grazia all’ultima crocchetta, spedì il piatto a levitare in lavastoviglie e uscì per recarsi all’appuntamento con suo cugino.

Il locale era praticamente deserto, rischiarato solo dalle insegne rossoblù di qualche marca di birra e da una sfilza di luci bianche lampeggianti. Il robostereo eseguiva un sincoritmo degli I-Fours. Gli occhi di Michael si andarono lentamente adeguando alla semioscurità. Da anni non tornava all’Hardwired. Innanzitutto non si trattava di un ritrovo abituale dei mutanti; e poi, dopo l’aggressione subita da Melanie, Kelly aveva preferito evitarlo anche lei.

Scorse al bar una donna attraente con lisci capelli neri e un sorriso cordiale. Indossava una tunica verde, provvista di vertiginosa scollatura anteriore che metteva in mostra il seno abbondante. Quasi di sicuro una prostituta, dedusse Michael. Tuttavia avvertì ugualmente un’inconfondibile fitta di desiderio. Kelly, torna a casa presto, invocò fra sé.

Venne distratto dall’apparizione di una brillante freccia gialla, puntata verso un separé vicino alla parete di fondo. Si diresse da quella parte, preceduto dalla ballonzolante segnalazione. Proprio all’estremità della sala, in effetti, trovò Skerry ad attenderlo, mollemente adagiato sui cuscini di un cubicolo defilato. La freccia scomparve tintinnando. Non per la prima volta, Michael invidiò la maestria telepatica di suo cugino, una destrezza mentale che lui non sarebbe mai stato in grado di raggiungere. Gli sedette di fronte, sistemandosi sulle spesse imbottiture color marrone.