Quanto agli occhi dorati, si trattava di un curioso effetto collaterale a proposito del quale esistevano numerose teorie. Per gran parte dell’anno Michael aveva la sensazione che tutta la faccenda si presentasse con i connotati di una fiaba. Finché l’inesorabile trascorrere dei mesi non tornava a immergerlo nella stagione dei mutanti.
Da bambino egli aveva ascoltato con incantata attenzione, durante la narrazione rituale che si celebrava ogni anno, la storia del suo clan. Al punto che ormai sarebbe stato in grado di ripeterla persino dormendo. I suoi antenati avevano lottato per sopravvivere, acutamente consapevoli dei propri strabilianti poteri e della possibilità che essi suscitassero terrorizzate, violente reazioni da parte della ben più ampia popolazione «normale». Avevano quindi creato comunità chiuse, segrete, lontane da sguardi indiscreti e da domande imbarazzanti. Per secoli i mutanti erano vissuti ai margini della società facendo i ladri, gli alchimisti, le streghe, i venditori di pozioni miracolose. Alcuni erano finiti arsi sul rogo. Altri avevano accumulato inimmaginabili ricchezze. Parecchi avevano lavorato nel mondo del circo. I mutanti eccellevano, come fenomeni da baraccone. E ancor più come protagonisti di acrobatiche imprese ladresche…
Eccentrici, riservati, solitari, erano dunque sopravvissuti e si erano moltiplicati, senza però mai liberarsi delle non poche minacce incombenti su di loro. A parte il timore costante, soprattutto in passato, di venire scoperti e perseguitati, i mutanti avevano dovuto sempre fare i conti con la consapevolezza che il loro arco vitale era più breve di quello dei normali appartenenti alla specie Homo Sapiens. Spesso un mutante maschio non raggiungeva la sessantina. Vivere più a lungo significava rischiare seriamente la follia. Michael aveva ascoltato, rabbrividendo di orrore, raccontare dei ricoveri segreti dove il suo clan celava al mondo intero i propri anziani farneticanti. Fra i mutanti in età più avanzata la percentuale di suicidi era due volte più alta di quella della popolazione normale. A indennizzo di un’esistenza tanto breve essi potevano vantare il possesso di facoltà che risultavano, nel migliore dei casi, poco affidabili.
Una comunità dentro l’altra. Il ceppo mutante era stato preservato, e a caro prezzo, tramite la rigorosa adozione di accoppiamenti endogamici. Nulla di strano che gente come suo padre divenisse particolarmente suscettibile, quando si trattava di sottoporre il risultato al pubblico giudizio. L’orgoglio per la propria discendenza continuava ancora a mescolarsi con l’incertezza circa quella che sarebbe stata la reazione dei normali. Ma il pensiero di trascorrere la vita intera recluso in seno alla famiglia cominciava a divenire intollerabile, per Michael. Quattro anni di università gli avevano mostrato che fuori del clan si stendeva un intero mondo sfavillante di possibilità.
Volgendo lo sguardo in giro per la stanza, Michael vedeva un compatto gruppo di amabili individui che probabilmente non avrebbero mai compreso il suo stato d’animo. Lo zio Halden era di ossatura forte e ventre abbondante. Accanto alla sua solidità da plantigrado, il padre di Michael — bionda capigliatura, carnagione dalle calde tonalità ambrate — appariva ancor più esile e basso di statura. Michael sapeva di assomigliare più che altro a suo padre, sebbene le ascendenze asiatiche materne avessero donato alla sua pelle una sfumatura leggermente più complessa, e ai suoi occhi una forma più esotica. Uno dei tanti aromi scaturiti dal crogiolo mutante, tutto qui. Michael era convinto ad ogni modo che i mutanti fossero Homo Sapiens al cento per cento, e in qualunque cosa consistessero quei benedetti agenti mutageni, lasciava volentieri ai biologi del clan il compito di occuparsene.
Egli aveva sentito parlare di mutanti con un occhio solo, con la pelle squamosa, con sette dita per mano (correva voce che vivessero in isolamento sulla costa occidentale), ed era grato alla sorte che la sua più curiosa caratteristica fisica consistesse semplicemente nella plica epicantica che grazie a sua madre, Sue Li Ryton, gli incurvava le palpebre. Melanie, con quella chioma corvina, aveva un aspetto leggermente più orientale, e Jimmy era dei tre il più somigliante alla mamma. Michael si guardò attorno per individuare quel furbacchione di suo fratello minore, ma non riuscì a vederlo. Probabilmente aveva marinato l’incontro per andare a divertirsi da qualche parte, e altrettanto probabilmente l’avrebbe passata liscia. Papà sembrava, chissà perché, notevolmente disposto a sorvolare sulle scappatelle di Jimmy.
L’assemblea pareva terminata, e Michael sgusciò verso l’uscita. Queste riunioni di clan, così ripetitive e prevedibili, incominciavano ad annoiarlo, e poi desiderava qualche minuto tutto per sé. Una volta tornati a casa, di tempo libero ne avrebbe avuto ben poco: il viaggio a Washington era ormai imminente, e subito dopo attendevano i contratti con la NASA.
«Ci lasci così presto, Michael?» La voce di James Ryton, cui l’irritazione aveva dato una nota stridula, saettò repentinamente attraverso la stanza, affilata come un coltello, e lo inchiodò a un passo dalla soglia. «Certo sei stato gentile, a onorarci della tua presenza.»
Michael ignorò il sarcasmo. «Volevo solo uscire a prendere una boccata d’aria.»
«Con questo freddo?» Suo padre lo fissava implacabile. «Che cosa c’è, non gradisci abbastanza la compagnia della tua famiglia?»
«Ho semplicemente bisogno di far due passi. Per pensare.»
«A qualche ragazza, immagino», sbuffò suo padre. «Be’, sai che ti dico? Che stai perdendo tempo. È alle questioni dei mutanti che dovresti dedicarti. Al nostro viaggio a Washington. Sarebbe proprio ora che tu incominciassi a considerarti, e a comportarti, come un membro responsabile di questa comunità. Non dimenticare che sei anche tu socio dell’azienda. Devi pensare al tuo futuro. Al nostro futuro.»
Michael si sentì salire il sangue alla testa. «Non ho mai trascurato gli impegni di lavoro!» scattò. «Ma non conta dunque nulla quello che sono io, quello che voglio io?»
«E cosa sarebbe quello che vuoi tu?»
Nella sala tacquero tutte le conversazioni, mentre i membri del clan focalizzavano la loro attenzione sul battibecco che stava opponendo padre e figlio. Michael si rendeva perfettamente conto che quanto stava per dire avrebbe addolorato la sua famiglia e i suoi amici, ma non poteva evitarlo.
«Sono stanco di dovermi preoccupare delle tradizioni», dichiarò. «Credevo fosse giunta finalmente l’ora di muoversi, no? Ora che siamo riusciti a far eleggere Eleanor Jacobsen al Congresso…»
«Guarda caso, c’è gente che invece non è affatto convinta che sia questo il momento di aprirsi verso il mondo nonmutante!» lo interruppe suo padre. «Io credo sia meglio che continuiamo a operare nel modo consueto, muovendoci con grande cautela. I normali possono essere molto pericolosi.»
«Sì, sì, lo so benissimo», ribatté Michael con voce impaziente.
«E allora devi renderti conto che sono proprio i tuoi interessi che mi stanno a cuore», continuò Ryton. «Occasionalmente possiamo anche socializzare con individui estranei al gruppo, ma certo non fino al punto di sposarli.»
Michael lo fissò sbalordito.
«Chi ha mai parlato di matrimonio? E ad ogni modo che cosa ci sarebbe di male?»
Ryton sostenne inflessibile lo sguardo del figlio, squadrandolo severo attraverso le lenti bifocali. «Sai perfettamente come la penso a proposito delle deviazioni genetiche. Dobbiamo assolutamente proteggere la purezza del ceppo mutante. Con quel che ci è costato crearlo e conservarlo…»
«Lo so, lo so, Dio se lo so!»
«E allora dovresti anche sapere che non puoi sottrarti più a lungo alle tue responsabilità. È ormai ora che tu incominci a interessarti a Jena. Ha l’età giusta, ed è uno dei pochi partiti disponibili.»
Una ragazza bionda, esile ma di aspetto provocante, sorrise a Michael dall’altro lato della stanza. L’aureo simbolo della fraternità mutante le scintillava sul delicato biancore del collo. Con un nodo alla gola, egli si costrinse a distogliere lo sguardo. Le consuetudini del clan erano una morsa che lo serrava prepotente, minacciando di storpiargli l’esistenza.