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«Stephen!»

Jeffers la baciò impetuosamente, insinuandole una mano fra le cosce. Bruciante, al richiamo di quelle dita imperiose, l’eccitazione la pervase. Ansimò, mentre Jeffers la sollevava e la penetrava. Rabbrividendo di piacere l’avviluppò fra le sue gambe, intanto che l’acqua calda scendeva a carezzarle il collo, le spalle, i seni. Venne in fretta, con frenetiche grida di godimento. Numerosi decisi affondi, e Jeffers la raggiunse. Si accasciarono sul pavimento della doccia. Dopo un minuto i due getti s’interruppero. Andie si protese ad acchiappare un asciugamano.

Avvolta nel morbido sincotone rosa, andò a gettarsi sul letto. Jeffers, nudo, le si distese accanto.

Prese distrattamente a carezzargli il petto.

«Raccontami di tua madre», gli disse.

Sotto i due corpi appagati, lenzuola color pesca deliziosamente lisce e fresche. Andie si sentiva pervadere dalla gradevole languidezza che seguiva sempre i loro amplessi.

Jeffers si strinse nelle spalle. «Te l’ho detto. Era una guaritrice.»

«Solo per i mutanti?»

«No. Di professione faceva la psicologa. Quindi penso che curasse anche i nonmutanti.»

«Adesso dov’è?»

«Rimase uccisa nei tumulti del Novantacinque.»

«Dio mio! C’eri anche tu?»

Le volse le spalle, girandosi verso la parete. «Sì. La folla ci investì, ci travolse. Lei riuscì a farmi rifugiare sotto un libratore, e mi disse di non uscire fuori sino a quando il pericolo non fosse passato. Rimasi non so per quanto tempo a guardare il suo corpo steso a terra. Finalmente arrivò la polizia, e lo tolse di lì.»

Parlava a voce bassa, in tono misurato, ma Andie riusciva a percepire l’orrore di quei momenti quasi come se li avesse vissuti anche lei. Le venne freddo tutt’a un tratto, e tirò su le coltri per coprirsi.

«Poi come facesti a venir via?»

«Mi trovò mio padre che era già notte.»

Jeffers tornò a girarsi verso di lei, fissandola. Nella penombra della stanza, dai suoi occhi parevano balenare arcani bagliori.

«Tu non te le ricordi, le sommosse?»

Andie scosse la testa. «A quel tempo avevo solo otto anni. Rammento i miei genitori che ne parlavano. E un giorno che a scuola dovevo presentare una ricerca e invece mi toccò restare a casa e ci rimasi molto male. Comunque, no, personalmente le sommosse non me le ricordo.»

Lo guardò, pensando al bambino che poc’anzi aveva strappato alla morte. E a quel giorno di ventidue anni prima in cui lui aveva aspettato, con gli occhi inchiodati sul cadavere di sua madre, che qualcuno venisse a salvarlo. E si sentì trafiggere da un’emozione strana. Sembrava amore. O compassione, forse.

Disteso su quel letto, egli pareva un idolo d’oro. Una scultura pagana appartenente a qualche culto di adoratori del sole. Emanava luce, da lui, dalla sua pelle abbronzata, dai suoi occhi dorati, dai suoi capelli fulvi.

Assolutamente splendido, pensava Andie. Un uomo come questo non esiterei un istante, a sposarmelo.

Sposare quest’uomo d’oro? L’osservò fra le palpebre socchiuse. Per la prima volta, non le pareva una prospettiva così assurda. Avrebbero potuto andare avanti assieme. Sì. E stare bene assieme. Avrebbero potuto rendere più vicini mutanti e nonmutanti. Lavorare per lo stesso scopo. Amarsi reciprocamente. Sì. In un modo o nell’altro sarebbe riuscita a sposarlo, quell’uomo. Sì. Sì. Sì.

Vinta da un crescente torpore, si rannicchiò sotto le coltri. «È stato bello. Magari mi faccio un sonnellino.»

«Ottima idea.» Le carezzò una spalla, e scese dal letto.

Andie scivolò in un vorticare di sogni bizzarri. C’era Stephen che salvava il ragazzino, più e più volte. Poi la sua faccia si trasformava, diventava la faccia di Ben Canay, e anche lui cercava di salvare un ragazzino. Anzi, no, adesso era una ragazzina. Una bambina mutante. Ma cercava di salvarla o di annegarla? E poi quella bambina aveva un aspetto stranamente familiare…

«No!» gridò Andie nel sogno. «Salvala! Salvala!»

Si alzò di colpo a sedere sul letto. Il cuore le batteva all’impazzata, e un groviglio di capelli madidi le si era scompostamente appiccicato sulla schiena e sulle spalle. Il posto al suo fianco era vuoto. Udì la voce di Jeffers provenire da un’altra stanza dell’appartamento, ma le fu impossibile distinguere le parole. Probabilmente in linea con qualcuno a Washington, pensò confusamente.

Si rimise giù tremando, aspettando che il cuore le si calmasse.

Era stato un sogno, pensava. Soltanto un sogno.

Riaffondò, pian piano, in un dormiveglia sconclusionato, tormentato dall’immagine di una ragazzina mutante in procinto di annegare.

Il ritorno a casa dopo l’assemblea fu rapido. Anche troppo. Dal decollo all’atterraggio, Michael ne visse ogni istante immerso nell’angoscia di quello che l’attendeva. Ma una volta giunto in camera sua, non ebbe la forza di rimandare oltre.

Con dita tremanti, compose al terminale il numero di Kelly.

Per favore, fa’ che non sia a casa…

Rispose al terzo squillo.

«Michael! Sei tornato presto!» lo salutò, il volto illuminato di gioia. «Pensavo che saresti stato via fino ai primi dell’anno. Dimmi, com’è andata?»

«Kelly, ho bisogno di vederti.»

Il sorriso di lei si affievolì. «È successo qualcosa?»

«Ti debbo parlare. Possiamo trovarci fra un quarto d’ora all’acquedotto?»

«Questa notte?» Lo guardava sbigottita. «Ma sì, certo. Michael, c’è qualcosa che non va?»

«Ti spiegherò tutto quando ci vediamo.» Con mano tremante, interruppe la comunicazione.

Michael giunse all’acquedotto in cinque minuti. Il lastricato appariva percorso da infinite screpolature, simili a quelle che incrinavano lo smalto di uno degli antichi vasi in ceramica tanto cari a sua madre. Sopra un cumulo di neve languiva, tristemente abbandonato su un fianco, un derelitto albero di Natale, che scintillava ancora qua e là di nastri decorativi.

Immerso in una tetraggine abissale, imbacuccato nel suo giaccone grigio, Michael tirava calci agli informi pezzi d’asfalto, bordati di catrame, che giacevano sparpagliati al suolo. Il sole stava tramontando, e un esercito di densi nuvoloni in rapido avvicinamento non pareva promettere nulla di buono.

Potessi essere in Canada, pensava. In Sudamerica. In qualunque altro posto, a fare una qualunque altra cosa.

Il vecchio acquedotto era tradizionalmente uno degli imboscamenti preferiti dagli adolescenti desiderosi di godersi in santa pace il gusto degli spinelli e l’ebbrezza delle ipodermiche, ma a quell’ora, e con quel freddo, risultava adeguatamente deserto.

Sbrigati, Kelly, implorava Michael nel malinconico turbinio dei suoi pensieri.

Un libratore azzurro cupo si fermò a pochi metri. Da dietro il volante Kelly gli sorrise radiosa, poi spense tutto e saltò fuori. Indossava una giacca a vento rossa, pantaloni neri, stivali argentei. Aveva un aspetto magnifico.

«Dio, quanto mi sei mancato! Fortuna che l’assemblea è finita presto!»

Gli gettò le braccia al collo. Michael la baciò teneramente. Gli pareva di avere un foglio di carta vetrata, in fondo alla gola. Si sciolse dal suo abbraccio.

«Facciamo due passi», propose con voce rauca.

Perplessità e inquietudine scavavano un solco fra le sopracciglia di Kelly.

«Allora, Michael, cosa c’è che non va?»

Lui sospirò. Le mezze bugie che aveva tentato di escogitare si sgretolarono all’istante.

«Tutto.»

«Che vuoi dire?»

Si volse a guardarla dritto in viso.

«Che non posso vederti più.»

Lo fissò a occhi sbarrati.

«Non puoi o non vuoi?»

«Non posso. Non guardarmi in quel modo, Kelly, ti prego. Sapessi quant’è difficile, da spiegare…» Serrò spasmodicamente i pugni. Lei glieli prese fra le mani.

«Provaci.»

«Ha a che fare con le leggi dei mutanti. Mi devo sposare.»