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Il vento soffiava gelido, trascinando con sé un accenno di neve. Qualche solitario volatile appariva intento a becchettare le alghe arenatesi a riva, e Michael si chiese con stupore come facessero a sopravvivere, nel cuore dell’inverno. Man mano che la sua ombra giungeva su di loro, gli uccelli si disperdevano freneticamente.

Fluttuare sulle acque era sempre stato un gioco stupendo, per lui. Per tenere sotto controllo le sue capacità levitatorie, da piccolo la mamma lo aveva legato di tanto in tanto a una fune. Ricordava bene con quanta pazienza lei avesse seguito, guidato, incoraggiato le prime esperienze di quel bimbo di quattro anni. «Fai un passo lungo lungo e poi salta!… Forza, Michael, riprova!»

I suoi poteri telecinetici, invece, erano emersi solo negli ultimi tre anni, ed egli era ancora nella fase in cui si divertiva a sperimentarli. Esercitò una pressione mentale contro le sottostanti acque agitate, e quelle naturalmente opposero resistenza, ma gli parve comunque di vederle un po’ ritrarsi.

In qualità di mutante doppio, Michael costituiva un caso raro persino nell’ambito della comunità, e suo padre non la smetteva mai di indottrinarlo sull’importanza di salvaguardare e tramandare quei preziosi geni: sposa una ragazza mutante, metti al mondo figli mutanti, aspira a divenire un giorno Custode del Libro, non rivelare a nessuno i tuoi poteri, adeguati, mimetizzati… Gli veniva rabbia solo a pensarci.

Vide sollevarsi, portati dal vento, gli spruzzi di un’onda infrantasi con particolare violenza sulla riva, e si innalzò leggermente per evitarli.

Cari, piccoli mutanti, pensò. Rincantucciati come topi, stretti stretti tutti quanti assieme nella loro tana a spartirsi la poca aria respirabile, un coro dissonante di bizzarre personalità che simile a stridere di unghie sopra una lavagna lo aggrediva ogni qual volta gli toccava partecipare a un raduno del clan. Meno male che il periodo dell’università lo aveva, seppur momentaneamente, sottratto a quell’ambiente soffocante, dandogli modo di conoscere, e apprezzare, lo stile di vita dei normali.

Le persone come Kelly McLeod respiravano liberamente. Gente che aveva responsabilità solo nei confronti di se stessa, al massimo verso la propria famiglia. Individui senza segreti da proteggere, senza claustrofobiche tradizioni da osservare, senza grette consuetudini da perpetuare. Uomini e donne lontani dall’opprimente promiscuità della vita di clan, esenti dagli obblighi di una sacra missione, liberi di essere se stessi e di scoprire quel che la vita aveva da offrire.

Michael ammirava la forte personalità di Kelly, la sua indipendenza. Le donne mutanti erano in gran parte caute, riservate, occultavano i loro pensieri dietro sguardi indecifrabili. Anche Jena. Per un attimo provò vergogna di averla ignorata a quel modo. Era una ragazza sana e intelligente, ma aveva gli occhi del colore sbagliato. Tutti i mutanti sfoggiavano occhi di quella medesima strana tinta brunodorata, curiosamente rilucente nell’oscurità; un marchio inconfondibile per riconoscersi ovunque fra membri del clan.

Kelly aveva gli occhi azzurri. Michael trovava estremamente attraente il dissonante comporsi di quel color pervinca con l’incarnato chiaro e la chioma corvina di lei. E gli piaceva il suo nasino a punta, delicatamente modellato. Gli piacevano quegli zigomi finemente cesellati. Gli piaceva l’imprevedibile naturalezza con cui Kelly un giorno poteva agghindarsi in pelle nera e catene d’argento, e il giorno dopo comparire coi capelli raccolti sulla nuca, e minuscoli orecchini, e una camicetta all’antica col collo alto adorna di trine. Quando sorrideva, mostrava dei denti non perfettamente allineati, ma a Michael andava benissimo così. Non gli interessava trovare in Kelly l’innaturale perfezione di un manichino. Lei era una persona vera, e anche in questo stava il suo fascino.

Ripensò a quella volta che l’aveva baciata nel cortile di casa McLeod. Non gli aveva resistito, quando lui le aveva insinuato le mano sotto il reggiseno. Era certo che se avessero avuto più tempo lei l’avrebbe ulteriormente incoraggiato, ma purtroppo il sopraggiungere di papà McLeod aveva prematuramente posto fine alle loro effusioni. La desiderava con un ardore che non aveva mai provato nei confronti di nessuna ragazza mutante.

«Fatti vivo, quando torni dalle vacanze», gli aveva sussurrato, mentre un alone di luce proveniente dal lampione del portico le circondava i capelli neri. Sì, era intenzionato a rivederla quanto prima, stando però attento che suo padre non si accorgesse di nulla.

«Un eurodollaro per i tuoi pensieri.»

Michael trasalì, gettando attorno un’occhiata ansiosa. Non vide nessuno. Udiva, in distanza, un’imposta sbatacchiare nel vento. Possibile che quella voce fosse stata frutto unicamente della sua immaginazione?

«Non hai paura che qualche normale ti veda e se la faccia sotto dall’emozione?» No, senza dubbio qualcuno gli stava parlando, ma le parole che udiva risuonavano nel suo cervello, non nelle sue orecchie. E quel tono beffardo, insinuante, poteva appartenere a una sola persona. Suo cugino Skerry. Eppure Halden aveva dichiarato che Skerry se l’era filata…

«Skerry… dove sei?» chiese Michael a voce alta. Non possedeva capacità telepatiche attive, e d’altra parte a chi le aveva era espressamente proibito violare l’intimità della psiche altrui. Per avere risposta alle proprie domande, Skerry non si sarebbe azzardato a prendere la scorciatoia dell’intrusione mentale.

«Dietro il bar.»

Michael discese rapidamente e s’incamminò sulla sabbia in direzione del plumbeo edificio malandato, ammassato di assi di legno come difesa contro l’inclemenza dell’inverno. Diede un’occhiata dietro l’angolo posteriore. Nient’altro che casupole fatiscenti e sabbia.

«Fochino, focherello…»

«Dai, Skerry, piantala!» Magari quel mattacchione era lì a due passi, ma non sarebbe mai riuscito a trovarlo se lui non avesse deciso di farsi vedere.

Udì dietro di sé un rumore simile a quello di un mazzo di carte che viene scozzato, e volgendosi scorse grigie barre diagonali che andavano lentamente solidificandosi, con effetto video, nella figura di suo cugino. Il solito vecchio Skerry. Giaccone a vento verde di tipo militare, jeans e stivali, ricciuti capelli castani, barba, e quegli occhi sfolgoranti identici ai suoi. Mentre però Michael aveva un fisico asciutto e nervoso, Skerry era grosso, pesante, muscoloso, con spalle molto ampie e polpacci che davano l’impressione di poter calciare un pallone da un’estremità all’altra del campo di gioco. O magari abbattere un albero. Adesso era lì che lo fissava, denti bianchi incorniciati da un sorriso beffardo. A Michael suo cugino piaceva, anche se non avrebbe potuto dire di fidarsene ciecamente. Ma non ne diffidava neanche, d’altronde. In effetti era difficile non provare sentimenti ambivalenti nei confronti di un telepate che andava e veniva come un fantasma.

«Hai litigato un’altra volta col tuo vecchio, eh?»

«C’eri anche tu, all’assemblea?»

«Be’, diciamo che non perdo mai di vista parenti e amici.»

«Quindi saprai come stanno le cose. Vogliono che sposi Jena. Che rimanga in carreggiata. Che mi occupi delle questioni famigliari. Che faccia il bravo bamboccio mutante.»

«Non ne puoi più, vero?»

«Proprio così.»

«E allora vattene.»

Michael scosse la testa con aria imbarazzata. «Non posso. Forse tu sì, ma i miei morirebbero se lasciassi la ditta e me ne andassi dalla città.»

Per tutta risposta Skerry diede una scrollata di spalle, tirò fuori uno stuzzicadenti e se lo cacciò in bocca con fare spavaldo.

«Dove sei stato?» gli chiese Michael.

«Un po’ qui, un po’ là. Il mondo è grande.» Si avviò lentamente lungo la spiaggia, invitando con un gesto Michael ad accompagnarlo. Camminarono fianco a fianco, in silenzio, per diversi minuti. D’un tratto Skerry si fermò, rivolse al cugino un’occhiata ferma e penetrante, gettò lo stuzzicadenti fra le onde.