«Non puoi passare la vita intera a dar retta a loro. Diventeresti matto. E non parlo di follia mutante. Ora come ora hai più possibilità di quel che credi, ma devi approfittarne subito, prima che sia troppo tardi. L’esistenza di noi mutanti è particolarmente breve, non dimenticarlo. Breve e tutt’altro che a lieto fine. Vattene, quindi, e cerca di scoprire te stesso.»
«Come hai fatto tu?»
«Perché no?»
«Più facile a dirsi che a farsi… E poi, se sei scappato, che ci stai a fare qui?»
Skerry scrollò nuovamente le spalle. «Nostalgia. A parte il fatto… che cosa ti fa credere che ci sono davvero?» Sorrise, e i contorni della sua figura incominciarono a svanire.
«Aspetta, Skerry, non te ne andare.»
«Dolente, ragazzo, tempo scaduto. Ripensa a quello che ti ho detto. Fila via, finché puoi. Mi terrò in contatto.»
Parve a Michael che l’ultima cosa a dileguarsi, di Skerry, fosse quel gran sorriso.
Melanie diede un bel morso al suo pasticcino gustandone l’intenso, appagante sapore. Era questa la fase del convegno che tutti attendevano con ansia: il momento di aggiornarsi sugli ultimi pettegolezzi e ammirare i nuovi membri del clan e discutere di politica. Specialmente discutere di politica. Oh, certo, tutti agognavano quel momento. Tutti tranne lei.
Osservò i ragazzi più giovani levitare in cerchio vicino al focolare, e per un attimo desiderò poter tornare bambina per unirsi a loro. Ma non era solo la differenza di età a separarla dal gruppo gioioso riunito accanto al caminetto, e dal resto del clan che affollava la stanza. Anche Melanie, senza dubbio, era una mutante. Per sincerarsene bastava uno sguardo a quei suoi occhi dorati. Ma era una neutra, lei. Una mutante disfunzionale.
Tutti quanti nel clan, si capisce, la trattavano cortesemente. Anche troppo. Si comportavano con lei come se fosse una ritardata mentale. La loro pietà non era meno difficile da sopportare del disprezzo che a scuola le manifestavano i nonmutanti.
Guardò Marol che dall’altra parte della stanza si coccolava tutta orgogliosa il figlioletto Sefrim, beatamente addormentato in piena levitazione sul grembo di sua madre.
Ho meno capacità di un mutante appena nato, pensò Melanie.
Desiderò essere scappata via insieme a Michael. O almeno aver portato con sé un po’ della Valedrina di sua madre. Incominciava a detestare quegli incontri quanto il fratello maggiore. Anzi, di più. Michael almeno era un vero mutante. Lei, invece, che cos’era?
Non piangere, si disse, facendo uno sforzo violento. Non farti veder piangere.
A che cosa le serviva avere gli occhi dorati, se poi non possedeva neanche un’ombra di capacità mutanti? E dire che si era esercitata in segreto per ore e ore, in camera sua, pregando che lo sviluppo di quegli agognati poteri fosse solo in ritardo…
Avrebbe dovuto essere una telecinetica, se lo sentiva nelle ossa. Ma per quanti sforzi avesse fatto, sino a procurarsi tremende emicranie a causa della feroce concentrazione con cui aveva tentato di spostare un’arancia da una parte all’altra della stanza, o almeno da un capo all’altro del tavolo, non aveva mai ottenuto nulla. L’arancia era rimasta immobile al suo posto.
Raggiunta poi la maturità sessuale, Melanie aveva incominciato a perdersi d’animo. A quell’età accadeva molto raramente che una ragazza mutante non avesse ancora sviluppato in pieno il proprio particolare talento. Aveva quindi cercato almeno di comprendere, se non di rassegnarsi. Ma quando in Michael era sbocciato un secondo potere, Melanie si era definitivamente convinta che qualche crudele e maligna divinità doveva averla prescelta per divertirsi a tormentarla. Michael non solo aveva avuto il talento che gli spettava, ma anche quello che sarebbe dovuto andare a sua sorella!
Sentendo sulla spalla il tocco delicato e affettuoso di una mano alzò gli occhi, e incontrò il sorriso di zia Zenora. La moglie di zio Halden, corpulenta e appariscente com’era, sembrava creata apposta per far coppia con lui, pensò Melanie. Lungo una manica ostentava una mezza dozzina di aurei simboli della fraternità mutante: sei occhi d’oro bordati da una cornice di braccia intrecciate. Zenora era impegnata nell’Unione mutante, e alle riunioni di clan non perdeva occasione per distribuire i suoi distintivi.
«Allora, come va la scuola?» le chiese zia Zenora abbracciandola.
«Oh, me la cavo, credo.»
«Dovresti essere… vediamo… in terza?»
«No, frequento l’ultimo anno.»
«Ah, bene, allora starai già pensando all’università, a una professione?…»
Melanie si strinse nelle spalle. «Papà vuole che rimanga a lavorare con lui.»
«Mi pare una buona idea.»
«Può darsi.» In realtà il solo pensiero di lavorare insieme a suo padre e a suo fratello le faceva venire il mal di stomaco. Quel che le sarebbe piaciuto fare era la giornalista televisiva. Diventare la prima videocronista mutante. Ma si trattava di un’eventualità improbabile quanto il fatto che lei si mettesse d’improvviso a levitare e a camminare sul soffitto.
Zenora si fece trascinare in una discussione politica in cui ogni tre frasi sembrava ricorrere il nome della senatrice Eleanor Jacobsen. Melanie scrollò il capo. La politica l’annoiava a morte. Vide sua madre seduta sul vecchio divano rosso, e andò da lei.
«Sempre in prima linea, la zia Zenora», osservò Sue Li sorridendo.
«Credo che la politica le piaccia più di ogni altra cosa, perfino più che cucinare», disse Melanie. «Scommetterei che i suoi distintivi li porta persino a letto.»
Passò loro accanto, a occhi bassi, la bionda Jena.
Sue Li sospirò. «Tuo fratello ci sta creando qualche problema. Quanto mi spiace, per quella povera ragazza…»
«A me invece per niente», ribatté Melanie. «Jena ne ha già a bizzeffe, di corteggiatori. È per Michael, piuttosto, che sono in pensiero.»
«Che cosa vuoi dire?» Sua madre le rivolse un’occhiata penetrante, e Melanie si sentì arrossire.
«Ecco», spiegò, «il fatto è che Jena non gli piace. O meglio, gli piace, ma non nel modo che vorreste voi.» Poi, in tono imbarazzato, soggiunse: «E penso che non sia giusto cercare di fargli fare ciò che lui non vuole».
«Quel che si dice un atteggiamento leale», commentò asciutta Sue Li.
Personalmente, Melanie era dell’opinione che Jena fosse un’antipatica presuntuosa innamorata solo del suo specchio… Ma, a dire il vero, provava un maligno compiacimento nel vedere qualcun altro, una volta tanto, far da bersaglio alle occhiate inquisitorie e ai commenti compassionevoli del clan. Pensò bene di compiere una nuova scorreria tra i favolosi pasticcini della zia, domandandosi se Zenora fosse una buona cuoca perché mutante, o sebbene mutante…
Una calda luce gialla riempiva le finestre del bungalow dei Ryton, spandendosi nelle tenebre circostanti. Il sole era tramontato da quasi un’ora. Michael aprì la porta pian piano, pronto a defilarsi al primo accenno di guai. Sua madre, seduta al tavolo di cucina, leggeva, volgendogli le spalle. Melanie e papà non si vedevano. Sentendolo entrare, Sue Li sollevò lo sguardo dal piccolo schermo.
«Hai mangiato?» gli domandò con voce stanca.
«No.»
«Togliti la giacca, intanto che ti preparo un panino.» E subito si alzò, facendo strusciare sul pavimento le gambe di legno della sedia, e si mise a trafficare per la cucina.
Con quella luce che le scintillava sui capelli neri, col viso che pareva incorniciato dal collo a cappuccio del suo maglione scarlatto, la mamma ricordò a Michael una stampa che aveva veduto una volta, un’antica stampa giapponese di una geisha in kimono color fragola e relativa sciarpa.
Appese il giubbotto all’attaccapanni, e sistematosi sulla sedia lasciata libera da sua madre sbirciò il testo rimasto in attesa sullo schermo, un racconto dell’orrore tratto da chissà quale antica raccolta.