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— Lo capisco perfettamente — disse Sweeney — e come motivo mi piace molto di più del primo.

— Inoltre, Sweeney, non credo affatto che il trovare l’assassino vi serva per avvicinarvi a Iolanda. Per lo meno, mi permetto dei dubbi.

— Certo, Doc. Un piccolo particolare, ancora: la polizia di Chicago mi supera in modo considerevole quanto a numero di uomini in forza. Ora, proprio per curiosità, vorrei sapere che cosa vi fa pensare che io col mio piccolo calibro possa riuscire là dove ha fallito l’intera armata blu.

— Perché siete un dannato irlandese furbo, perché siete un po’ un predestinato: lo avevo supposto da qualche frase del vostro articolo e ora lo so con precisione. E perché Iddio ama gli sciocchi e gli ubriaconi e voi avete entrambi i loro difetti. E forse anche perché nascondete sotto un aspetto banale un cervello diabolicamente acuto, Sweeney; altra cosa che io prima sospettavo soltanto e che ora so con certezza. E in voi c’è una sottile abilità che vi porterà in luoghi dove la polizia non penserebbe di andare, come quel contadino che ritrovò il cavallo smarrito, immaginando di essere lui stesso un cavallo e di andare dove sarebbe andato un cavallo. Non che io voglia paragonarvi a un cavallo, Sweeney. Per lo meno non completamente.

— Grazie: concludendo, sono un somaro con un cervello diabolicamente acuto. Ditemi ancora qualcosa, per favore — disse Sweeney, con un certo risentimento.

— Credo che potrei continuare, perché sono davvero uno psicologo, Sweeney, pur non esercitando la professione. Un caso disgraziato mi buttò tutto in aria durante il mio ultimo anno di internato: avevo pensato che la satinasi dovesse essere la cura più logica per la ninfomania e dato che un nostro paziente era affetto da satiriasi a uno stadio avanzato, mi presi la libertà di introdurlo nella stanza di un’altra paziente affetta da forte ninfomania, lasciandoli insieme per lungo tempo. Ma i miei superiori fecero un chiasso terribile sulla faccenda.

— È piuttosto comprensibile — rispose Sweeney.

— Se poi avessero soltanto immaginato tutti gli altri miei esperimenti che non furono scoperti! Ma non cambiamo discorso.

— Infatti: stavate parlando di aiutarmi a trovare lo Squartatore. Perciò, cominciate ad aiutarmi.

Greene allargò le mani. — Non è molto, perché non è che io abbia nome e indirizzo dell’assassino nel mio notes, pronti da indicarvi. Intendevo dire soltanto che lavorerò volentieri insieme a voi, Sweeney, e vi rivelerò alcuni dati ed elementi che possiedo. Poi, visto che desiderate parlare con Iolanda, vedrò di ottenervelo, poiché vi sarebbe difficile riuscirci con la polizia all’erta, come sarà in questi giorni. — Guardò l’orologio e concluse: — Purtroppo, adesso non ho tempo di fermarmi, ho un appuntamento d’affari. Si deve anche mangiare a questo mondo. Potreste trovarvi qui domani, all’incirca alla stessa ora, Sweeney?

Sweeney aggrottò la fronte. — Non so. Forse mi fate perdere tempo. Avete veramente qualcosa da darmi?

— Ho Iolanda — rispose Greene. — Domani sarà dimessa dall’ospedale. La condurrò con me qui. Ci sarete, vero?

— Naturale, che ci sarò — disse Sweeney.

— Bene. Dovremo vederci spesso, noi due, perciò tralasciamo le formalità. Non diciamoci falsi arrivederci. Le mie due bibite vanno sul vostro conto. Grazie e andate all’inferno. — E si allontanò.

Sweeney trasse un lungo, lento respiro. Il barista arrivò subito. — È un dollaro e venticinque. Non bevete la birra?

— No, gettatela nel lavandino. Ma portatemi un whisky.

— Liscio o con soda?

— Liscio.

Sweeney pose due dollari sul banco e quando il barista tornò disse: — Un bel tipo, quel Doc Greene.

— Oh, altro che tipo!

— Quello che mi ha colpito sono i denti — continuò Sweeney — sembravano proprio suoi, perché non erano abbastanza regolari da essere falsi. Ma come diamine riesce ad avere denti simili un tipo come lui?

Il barista rise. — Forse sarà per gli occhi. Da ipnotizzatore: credo che ci voglia un bel coraggio per giocare un tiro a Doc. Io non mi mischierei mai nelle sue storie. Ed è incredibile come le donne gli corrano dietro. Non lo si crederebbe mai.

— Anche Iò? — domandò Sweeney.

— Di Iò non saprei. È una donna difficile da capire.

Prese i due dollari di Sweeney, batté alla cassa uno scontrino da uno e ottanta e gli mise sul banco il resto. Sweeney vi aggiunse altri venticinque centesimi e disse: — Bevine uno con me.

— Certo, grazie.

— Alla salute — disse Sweeney. — Dimmi, chi dirige adesso l’“El Madhouse”? Appartiene ancora a Harry Yahn?

— Appartiene a Yahn, almeno per la maggioranza, ma non lo dirige lui. Lui ha preso un altro locale.

— Del genere zuccherino, come questo?

Il barista sorrise debolmente. — Non questo genere.

— Oh! — esclamò Sweeney — allora sarà un piccolo bar, con una grande sala sul retro, e se si conosce un tale che si chiama Joe e che sta alla porta, si può perdere nel retro anche la camicia.

La bionda grassoccia all’estremità del banco batteva con impazienza il bicchiere sul ripiano. Il barista sussurrò: — Il tizio alla porta si chiama Willie — e scivolò via a portar da bere alla bionda.

Dopo aver finito il suo bicchiere, Sweeney si alzò e uscì per Clark Street nel crepuscolo. Si diresse a sud, verso il Loop, camminando piano, senza meta, cercando di riflettere, senza riuscirvi. Conosceva bene quello stadio della ripresa, quando la mente era confusa e i suoi pensieri si muovevano come fantasmi in una fitta nebbia, mentre le sensazioni fisiche giungevano con una vivezza abbagliante: i clacson delle automobili e i campanelli dei tram erano spaventosamente rumorosi; gli occhi mettevano a fuoco perfetto ogni oggetto; gli odori, che di solito neppure notava, avevano una forza nauseante.

Doveva mangiare a qualunque costo, e presto, per riprendere le forze. Soltanto una certa quantità di cibo solido avrebbe dissipato la nebbia dal cervello e liberato lui dalla sensazione di leggerezza e dalla prostrazione fisica che stava per penetrargli fin nelle ossa. Tutte queste percezioni e l’emicrania martellante lo accompagnavano ancora. E pensò a quanto sarebbe stato bello morire, senza sforzo e senza dolore, senza neppure avvedersene: addormentarsi e non svegliarsi più. Anche dormire è un bene, ma poi vi dovete sempre svegliare per ritrovarvi nella confusione e nella complicazione e in quelle mille piccole sofferenze, che di quando in quando maturano in una grande sofferenza, alla quale soltanto l’immergersi nell’alcol dà sollievo.

Ma in quel momento non si trattava precisamente di questo. Quell’unico whisky bevuto all’“El Madhouse” non gli aveva dato il desiderio di berne un altro, non gli aveva né schiarito né confuso la mente e non aveva nemmeno avuto un sapore, buono o cattivo che fosse. Sul ponte, quando infine vi giunse, si sentì meglio. Ci soffiava una brezza fresca ed egli sostò a contemplare il fiume, lasciando che il vento lo colpisse. Quando si voltò per tornare indietro, scorse un taxi vuoto e si fece portare a casa.

Quando fu nella sua stanza, prese dal letto la pila dei giornali e si sdraiò in poltrona. Trovò l’articolo sul primo assassinio, quello di Lola Brent: mezza colonna in seconda pagina, ma pochi particolari. Non si faceva cenno allo Squartatore. Era la storia di una donna, e una donna poco importante, d’altronde, che era stata trovata morta nel passaggio tra due edifici della Trentottesima Strada. L’arma usata era stata un rasoio o una lama sottile di coltello. L’assassinio era avvenuto tra le quattro e le cinque del pomeriggio, in pieno giorno. Non vi era stato nessun testimone e il cadavere era stato scoperto da un bambino che tornava a casa dal campo di gioco. La polizia era alla ricerca dell’uomo con cui Lola Brent conviveva.

Sweeney prese il secondo giornale, dove il fatto era presentato con maggior rilievo, ed era accompagnato da due fotografie. Una era di Lola Brent: bionda e bella. Non mostrava i trentacinque anni che le si attribuivano nel resoconto, gliene avreste dato poco più di venti. L’altra fotografia ritraeva l’uomo arrestato dalla polizia, Sammy Cole: aveva capelli neri, ricci e una faccia simpatica. Aveva negato di aver ucciso Lola Brent ed era stato trattenuto in attesa di accertamenti.