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Lo sguardo di Sweeney, che era andato vagando per la stanza ammobiliata con eleganza raffinata, seppure un poco femminea, si fermò infine sulla statuetta, alta venticinque centimetri circa, sul marmo del caminetto. Attraversò la stanza per osservarla da vicino, e comprese allora che cosa aveva inteso dire Reynarde. La figuretta nuda aveva veramente un’aura virginale, ma lo si avvertiva solo in un secondo tempo: «La paura, l’orrore, l’urlo», aveva detto Reynarde, ed erano viventi non solo nel volto, ma nella contorta rigidità del corpo. La bocca era spalancata in un urlo silenzioso, mentre le braccia si tendevano avanti, con le palme aperte, a cercar riparo da un incombente orrore.

— Un oggetto squisito — disse la voce di Reynarde dall’altro lato della stanza, dove stava versando le bevande presso un piccolo mobile-bar di mogano, fornito anche di frigorifero. — Ed è fatta di una nuova materia plastica che non si distingue dall’ebano, se non la si tocca. La superficie è come quella dell’ebano. Ma se quella figurina fosse, come sembra, di ebano lavorato a mano e fosse un originale, avrebbe un valore enorme. — Fece un gesto circolare che indicava tutta la stanza. — Molti degli oggetti che vedete qui sono originali. Io li preferisco.

— Non sono d’accordo. Preferirei sempre una riproduzione di Renoir a un originale di una scuola d’arte qualsiasi. Ma è questione di gusti personali. Potreste procurarmi una di queste?

La voce di Reynarde risuonò proprio alle spalle di Sweeney. — Ecco il vostro bicchiere, signor Sweeney. Sì, credo che potrei trovarvi una «Statua che urla». La ditta che le fabbrica, una piccola azienda di Louisville, può averne qualche residuato. Di solito ne fanno poche centinaia di esemplari, quando si tratta di oggetti simili. Se però voi ci tenete davvero, posso vendervi questa. Pur essendo stata sul mio caminetto, è sempre virginale. — Rise da solo e proseguì: — Oppure, se vi sembra in questo modo di averla di seconda mano, potrei riportarla in negozio e vendervela là. È questo uno dei vantaggi di essere commercianti: io non arrivo mai in tempo a stancarmi di un oggetto d’arte o di un soprammobile, perché spesso mi trattengo degli oggetti del negozio qui in casa, finché ne sono sazio, e li scambio con altri. Penso che ormai quella creatura cominci ad annoiarmi. Alla vostra salute, signore!

Sweeney bevve senza neppure accorgersene, senza distogliere lo sguardo dalla statuetta e vuotando il bicchiere in un sorso. Poi disse: — Prima che cambiate idea, Reynarde… — Appoggiò il bicchiere sul caminetto e trasse dal portafoglio ventiquattro dollari. — Come mai le è stato dato quel nome? Siete stato voi o la ditta fabbricante?

Reynarde si morse le labbra. — Non so, non ricordo… però, sì! Il nome è arrivato dalla ditta fabbricante, ma non come nome ufficiale, è logico.

— Chi ha creato la statuetta? l’originale, s’intende.

— Non lo so proprio. La ditta è la Ganslen Art. Fabbricano molti portalibri e scacchiere, ma di quando in quando fanno anche questi piccoli lavori di scultura, che sono eccezionalmente belli per il loro prezzo. Volete che ve la incarti?

Sweeney rise. — Metterle le sottane? Mai. La porterò nuda per le strade.

— Un altro aperitivo, signor Sweeney?

— No, grazie. Credo che sia ora che la statuetta e io ce ne andiamo.

Prese in mano gentilmente la figurina, ma Reynarde disse: — Sedete un momento, signor Sweeney — e si adagiò per primo in un’ampia poltrona, benché Sweeney restasse in piedi. — C’è qualcosa che mi interessa, anche se non è per nulla affare che mi riguardi. Siete un sadico?

— Io?

— Voi. Mi ha incuriosito vedere come quella statuetta abbia esercitato un richiamo su di voi. È un vero inno al masochismo, e solo per un sadico può rappresentare un richiamo.

Sweeney lo guardò pensieroso. — No, io non sono sadico, ma capisco il vostro punto di vista riguardo al richiamo esercitato dalla statuetta. Però non posso rispondere. Nel momento in cui l’ho vista, ho sentito che avevo bisogno di possederla, ma non ho la minima idea della ragione.

— Forse come oggetto artistico?

— No, perché è ben fatta, con gusto e abilità, ma non è grande arte ispirata.

Reynarde sporse le labbra. — Forse qualche associazione mentale nel subcosciente?

— Potrebbe darsi — rispose Sweeney. — In ogni caso, grazie e arrivederci. Debbo andare.

Reynarde lo accompagnò alla porta, inchinandosi leggermente alla sua uscita. Mentre la porta si chiudeva dietro di lui, Sweeney si domandava perché aveva voluto quella statuetta. E anche perché si era seccato che Reynarde cercasse di scoprire i motivi del suo acquisto. Osservò la statuetta che teneva in mano e rabbrividì leggermente, non nel corpo, ma nello spirito. Non era bella né sensualmente significativa. Perdiana, Reynarde aveva ragione: poteva attrarre solo un sadico o comunque uno che fosse anormale. Eppure lui, Sweeney, aveva speso ventiquattro dollari per portarsela a casa. Era ubriaco di nuovo?

No, non lo era; anzi, la nebbia della sua mente si andava diradando, ed egli colse in un lampo una sensazione che avrebbe potuto costituire quell’associazione di idee cui aveva alluso Reynarde. Ma la nebbia calò di nuovo sul suo cervello. Bene, il lampo però sarebbe tornato, e Sweeney, sospirando, cominciò a scendere le scale. Incontro a lui saliva un bel ragazzo, biondo, roseo e ricciuto, che incrociandolo scrutò con curiosità la statuina di Sweeney, ma non fece commenti e si fermò a suonare il campanello di Reynarde.

Sweeney continuò a scendere e uscì nella sera punteggiata di cento luci, nell’aria calda e umida. Si diresse a ovest, poi a sud, per Dearborn Street, domandandosi fino a quando avrebbe resistito a camminare; quanto avrebbe resistito senza mangiare e senza dormire. La nausea tornava ad assalirlo, e il pensiero del cibo era sempre disgustoso, ma era un supplizio a cui doveva sottoporsi. Quando fu in Chicago Avenue, entrò in un piccolo ristorante lindo e simpatico e sedette al banco. Un uomo in grembiule bianco, che ricordò a Sweeney un chirurgo, gli si accostò dall’altra parte del banco, rimanendo in attesa degli ordini, mentre i suoi occhi fissavano affascinati la statuetta nera che Sweeney aveva deposto sul banco davanti a sé.

— Ehi, puoi procurarmi un pranzo proprio speciale? — disse Sweeney.

— Se abbiamo quello che volete, lo possiamo preparare.

— Pane — spiegò Sweeney. — Due fette di pane bianco, solo, senza burro. Non troppo fresco, ma neppure stantio. Con la crosta. E su un piatto bianco. Credo che riuscirò a mangiarlo. Il pane, s’intende, non il piatto. Puoi farmelo?

— Domanderò al cuoco. Anche caffè?

— Nero, carico. In una tazza.

Sweeney chiuse gli occhi per concentrarsi su un pensiero, così da evitare di prestar attenzione agli odori del ristorante, ma riuscì solamente a concentrarsi sugli odori. Quando udì il rumore del piatto e della tazza che gli venivano posti dinanzi, aprì gli occhi. Bevve un sorso di caffè bollente e cominciò a spilluzzicare una fetta di pane. Bene, pareva che andasse giù e fosse disposta a rimanerci.

Aveva quasi finito la seconda fetta, quando ritornò il cameriere. Si appoggiò al banco contemplando la statuetta e disse: — È una di quelle cose che prende, quando la si guarda. Da chi l’avete avuta?

— Da una fata — rispose Sweeney. — Quanto devo?

— Quindici cents. Sapete a che cosa mi fa pensare questa statua? Allo Squartatore. — Sweeney quasi si affogò col caffè; poi depose la tazza sul piattino con precauzione. Il cameriere non aveva notato nulla e continuava: — Voglio dire: a una donna attaccata dallo Squartatore. Nessuna donna sarebbe così spaventata se la rapissero semplicemente, ma con un pazzo che la insegue con un coltello in mano e magari la spinge in un angolo…

Sweeney si alzò lento in piedi, prese dal portafoglio cinque dollari e li mise sul banco, dicendo: — Tienti il resto — poi, afferrata saldamente la statuetta, uscì dal ristorante. Per la seconda volta nella giornata, un’automobile evitò per miracolo di investirlo mentre lui attraversava la strada. La nebbia era scomparsa; ora sapeva qual era l’associazione d’idee e sapeva perché aveva voluto «La statua che urla». Avrebbe potuto comprenderlo al momento in cui Reynarde aveva accennato all’attrazione della statua per un sadico; e certo lo avrebbe compreso allora, se la sua mente fosse stata chiara. Ma adesso tutto era trasparente come il gin. Un’ora o due prima di venir uccisa, Lola Brent aveva venduto «La statua che urla», e la sua morte non era collegata al suo furto sull’incasso, ma all’aver venduto lei la statua. L’acquirente era stato evidentemente un pazzo sadico, che l’aveva aspettata fuori dal negozio e l’aveva seguita fino a casa. Per lui era stata una fortuna miracolosa che Lola fosse scacciata e dovesse andare subito a casa, dove l’aveva aggredita nello stretto passaggio. Chissà se l’avrebbe comunque uccisa, nel caso che fosse uscita regolarmente all’ora del tè?