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— Grazie, Tess — disse Sweeney. — Adesso devo andare. — Guardò il denaro sul banco: tre dollari e qualche spicciolo di resto ai dieci da lui consegnati.

— Mettiteli sotto il materasso. Ci rivedremo, ciao.

Lei gli pose la mano sul braccio. — Aspetta, cosa vuoi dire? Che tornerai?

— Forse.

Tess sospirò e tolse la mano. — Bene, allora non tornerai, lo so. I ragazzi simpatici che mi piacciono non lo fanno mai.

Quando Sweeney uscì sul marciapiede, il caldo lo investì con una vampata ed egli esitò un momento prima di avviarsi.

Tutto quel che dalla strada era visibile dell’Hotel Claremore era una rampa di scale assolutamente inattraente. Sweeney si arrampicò per i gradini fino al sudicio pianerottolo del secondo piano, dove scorse un uomo brutto e tarchiato, che non si radeva la barba da almeno due giorni, intento a scegliere la posta su un banco. Alzò gli occhi su Sweeney e brontolò: — Pieno. Completo — poi tornò a occuparsi della posta.

Sweeney si appoggiò al banco in attesa, finché l’uomo rialzò lo sguardo. — Stella Gaylord viveva qua? — disse Sweeney.

— Dio Onnipotente, un altro poliziotto o un altro giornalista. Sì, viveva qua. E allora?

— Allora niente — rispose Sweeney.

Si volse a osservare il corridoio scuro, dove le porte perdevano la vernice, e le scale nude che portavano al pianterreno. Annusò l’aria e concluse che Stella Gaylord doveva desiderare davvero il suo negozio di bellezza per riuscire a vivere in una simile topaia.

Scrutò di nuovo l’uomo tarchiato, incerto se fargli un’altra domanda, poi decise di mandarlo all’inferno.

Voltò le spalle, scese le scale e uscì in strada.

L’orologio in mostra nella vetrina di un orefice accanto al portone gli disse che mancava un’ora all’appuntamento con Greene e Iolanda all’“El Madhouse”.

Gli ricordò anche che lui non possedeva più un orologio, così entrò a comperarne uno. Riponendo il resto nel portafoglio, domandò al gioielliere: — Conoscevate per caso Stella Gaylord?

— Chi?

— Ecco la fama cos’è! Lasciate perdere.

Appena fuori, si fece portare da un taxi in State Street: probabilmente la cameriera amica di Stella non sarebbe stata di servizio a quell’ora, ma poteva ottenerne l’indirizzo e forse altre informazioni.

Il ristorante si chiamava “Dinner Gong” e vi erano due cameriere dietro il banco, mentre un uomo in maniche di camicia, con l’aria del proprietario, stava al banco dei tabacchi, dietro a un registratore di cassa.

Sweeney acquistò delle sigarette, dicendo: — Sono del “Blade”. So che avete una cameriera che era amica di Stella Gaylord. Fa sempre il turno di notte?

— Parlate di Thelma Smith, vero? Se n’è andata una settimana fa. Aveva paura a lavorare in questi paraggi, dopo quel che era successo alla Gaylord.

— Avete il suo indirizzo?

— No. Voleva andarsene dalla città. È tutto quel che so. Parlava di New York e può darsi che sia andata là.

Sweeney tentò: — Stella è stata qui, quella sera?

— Certo. Io allora non c’ero, ma c’ero dopo, quando la polizia ha interrogato Thelma. E lei ha detto che Stella era venuta poco dopo le due a prendere un panino e un caffè e poi era uscita.

— Non disse a Thelma dove era diretta?

Il padrone scosse la testa. — No, ma è probabile che fosse qua vicino, se no non sarebbe arrivata da Madison Street a qui per un panino. I poliziotti pensavano che avesse un appuntamento in qualche albergo qua attorno, per la notte, dopo finito il lavoro nel locale.

Sweeney lo ringraziò e uscì. Era sicuro che non valesse la pena di rintracciare Thelma Smith; la polizia l’aveva già interrogata e, se nella sua partenza ci fosse stato qualcosa di sospetto, ci avrebbe pensato lei a rintracciarla.

Mentre attendeva il momento per attraversare la Chicago Avenue, si avvide di aver dimenticato di porre una domanda a Tess, così, attraversata finalmente la strada, le telefonò nel locale di Susie.

— Sono quel tale con cui parlavi una mezz’ora fa, Tess — le rammentò. — Mi è venuta in mente una cosa. Stella ti ha mai detto nulla di una statuetta… la figura di una donna, nera, alta circa venticinque centimetri?

— No. Dove sei?

— Mi sono perduto nella nebbia. Sei mai stata in camera di Stella?

— Sì, pochi giorni prima del… prima che morisse.

— Non aveva una statuetta come quella che ti ho detto?

— No, però aveva una statuetta sul comodino, bianca. Era una Madonna e mi ricordo che mi ha detto che l’aveva da molto tempo. Perché? Cosa vuol dire questa storia della statuetta?

— Probabilmente nulla. Senti, Tess, la frase: «La statua che urla» ti dice qualcosa?

— No. Che cos’è, un gioco?

— No, ma non posso dirti altro. Comunque, grazie. Ci vedremo qualche volta.

— Ci scommetto!

Uscendo dal negozio dove aveva telefonato, si diresse all’“El Madhouse”.

VIII

Lei aveva nella realtà l’aspetto che Sweeney le aveva attribuito nella sua mente, eccetto naturalmente il particolare che era vestita. Sweeney le sorrise e lei gli ricambiò il sorriso, mentre Doc Greene diceva: — Non la dimenticherete di certo, Sweeney. Da quando vi siete seduto, non avete smesso di fissarla.

Iolanda intervenne. — Non dategli retta, signor Sweeney. È un cane che abbaia e non morde.

Greene sogghignò. — Non dare di queste notizie a Sweeney, che mi attribuisce già delle origini bastarde, cara. — Fissò Sweeney attraverso le spesse lenti e dolcemente mormorò: — Io posso mordere.

— Se non altro — disse Sweeney a Iolanda — mi abbaia alle calcagna e non mi piace.

— No, Doc è carissimo, signor Sweeney. Scherza con voi.

— Sarebbe meglio che non scherzasse su di me. Doc, vi radete con un rasoio non di sicurezza?

— Se mi capita, sì.

— E in questo caso adoperate il vostro o quello degli altri?

Gli occhi di Doc si strinsero leggermente, dietro i pesanti occhiali. — Qualcuno ha adoperato il vostro?

Sweeney accennò di sì. — La vostra perspicacia mi confonde di nuovo. Sì, qualcuno ha preso il mio. E anche un temperino: erano gli unici due oggetti taglienti disponibili nella stanza.

— Per non parlare del vostro cervello, Sweeney. Quello ve lo ha lasciato. O era là anche lui, al momento del furto?

— Ho i miei dubbi, perché deve essere accaduto di sera, mentre ero fuori, piuttosto che quando ero addormentato. Lo deduco dal fatto che guardandomi allo specchio stamattina non ho visto nessuna sottile linea rossa sulla gola.

Greene scosse lento la testa. — Avete guardato nel posto sbagliato. Il nostro amico Squartatore ha una marcata preferenza per i visceri. Avete controllato?

— Non con particolare attenzione, Doc. Ma lo avrei notato quando ho fatto la doccia.

Iolanda rabbrividì e spinse indietro la sedia. — Temo di dovervi lasciare, signor Sweeney, perché debbo parlare con il maestro per un nuovo numero. Verrete a vedermi ballare, stasera? Il primo numero comincia alle dieci.

Gli tese la mano sorridendo, e Sweeney, restituendole il sorriso, strinse la mano fra le sue. — Complimenti, Iò. O posso chiamarvi Iolanda?

La donna rise. — Credo che mi piaccia di più. Lo dite in modo pieno di significato.

Si allontanò oltre l’arcata che portava dal bar alla sala. Il cane, che era rimasto sdraiato accanto alla sua sedia, la seguì. E altrettanto fecero i due poliziotti che avevano atteso seduti al tavolo vicino.

— È un vero corteo — osservò Doc Greene.

Sweeney, restando seduto, continuò a far cerchi sul tavolo con il fondo del bicchiere, finché, dopo un minuto, alzò gli occhi. — Salute, Doc. Non mi ero accorto che foste qui.