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— Allora andiamo d’accordo, capo. E per queste parole amichevoli, specialmente riguardo al coltello, vi perdonerò di avermi sottratto rasoio e temperino, senza avvertirmi, e vi perdonerò di avermi fatto morire di spavento quando me ne sono accorto. Perché non mi avete lasciato un messaggio per spiegarmi la faccenda?

— Volevo vedere la vostra reazione, Sweeney. Se voi foste stato lo Squartatore, non trovandoli, vi sareste spaventato molto di più, avreste fatto un passo falso e vi avremmo preso. Sapete, Sweeney, ho deciso proprio che voi non siete lo Squartatore.

— Molto gentile da parte vostra, capo. Ma vi sfido a dirlo a tutti i vostri ragazzi. Perché, logicamente, sono stato seguito, finché pensavate che lo fossi.

— Oggi sì. Ieri non ci sono riusciti. Ma adesso credo che vi toglierò l’angelo custode, tanto più che ormai ne siete al corrente.

— Io vi suggerirei di passarlo a Doc Greene. Dite, non è stato per caso un discorsino di Doc a suggerirvi per la prima volta l’idea di sospettare me?

Bline sorrise. — Come vi volete bene voi due! E questa è già una risposta alla vostra domanda. Bene, ora che ne direste di entrare? Fra dieci minuti sarà il suo turno.

Trovarono Nick ed egli li guidò oltre il grosso cameriere che sorvegliava la porta. Mentre si facevano strada faticosamente negli stretti passaggi fra i tavoli, c’era di nuovo la cantante con il sasso in gola che sillabava la sua canzone. Non c’erano tavoli da tête-à-tête, pensò Sweeney, in una serata simile: ogni tavolo aveva almeno quattro persone, tranne quelli dove ce n’erano cinque o sei.

Avevano appena cominciato ad attraversare la sala, che Sweeney si sentì afferrare per un braccio e, volgendosi, vide Bline piegarsi verso di lui, per dirgli a bassa voce, in modo che lui solo potesse udirlo: — Ho dimenticato di dirvi, Sweeney, di tenere gli occhi ben aperti qui dentro. Guardate tutte le facce e vedete se c’è qualcuno che ricordate di aver incontrato al portone in State Street. Capito?

Sweeney annuì. Poi riprese a seguire Nick, ma intento a scrutare il maggior numero possibile di facce lungo il percorso. Non che credesse di poter riconoscere una qualunque persona che avesse assistito insieme con lui allo spettacolo del mercoledì notte: tutto quel che aveva scorto fuori dell’atrio erano state delle schiene. Ma provare non nuoceva, e la supposizione di Bline, che lo Squartatore potesse essere venuto sul davanti della casa per unirsi all’altra gente, appariva ragionevole. E altrettanto gli sembrava ammissibile l’ipotesi che lo Squartatore fosse in quel momento in sala.

Nick li condusse a un tavolo dove erano già seduti tre uomini: c’era una sedia vuota, appoggiata a un angolo del tavolo. Disse: — Vi manderò un cameriere con un’altra sedia, potete stringervi un poco. Lo stesso da bere, voi due?

Bline accettò, dicendo: — Sedete, Sweeney. Voglio parlare a qualcuno dei ragazzi, prima di mettermi a posto.

Sweeney prese la sedia e osservò i suoi tre compagni, tutti intenti alla cantante e indifferenti alla sua presenza. Uno di loro gli era quasi familiare, ma gli altri erano sconosciuti. Guardò la cantante: non era spiacevole da vedere, ma avrebbe preferito non doverla anche ascoltare.

Prima che Bline tornasse, arrivarono la sedia e i liquori. Sweeney si scostò per fare posto al capo e Bline lo presentò agli altri tre. — Sweeney… Ross, Guerney, Swann. Novità, ragazzi?

Il giovanotto chiamato Swann rispose: — Quel tizio al tavolo d’angolo si è un po’ agitato, lo tengo d’occhio: è quello con il garofano all’occhiello. Ma forse è soltanto ubriaco.

Bline gettò un’occhiata nella direzione indicata, poi disse: — Non credo. Lo Squartatore non richiamerebbe l’attenzione su di sé vestendosi a quel modo e col fiore, per di più! Né penso che lo Squartatore vada in giro sbronzo.

— Grazie per questa opinione — intervenne Sweeney.

Bline si rivolse a lui. — Visto qualcuno che potrebbe essere stato al portone quella notte?

— Solamente il giovanotto davanti a me, che mi avete presentato come Guerney. Non era uno dei poliziotti intervenuti là?

Udendo il proprio nome, Guerney si era voltato. — Sì. Sono stato io a sparare al cane.

— Bel colpo — osservò Sweeney.

Bline disse: — Guerney è uno dei migliori tiratori del dipartimento. E anche il suo compagno, Kravich, che è al bar a guardare la gente che entra ed esce.

— Non l’ho notato.

— Ma lui ha notato voi. Quando siete entrato, l’ho visto scattare nella vostra direzione, poi, accorgendosi che io vi accompagnavo, si è fermato. Ero sicuro che non ve ne foste accorto.

— No, e ora silenzio… — pregò Sweeney. L’annunciatore era apparso sul palcoscenico (erano riusciti a ottenere un palcoscenico, per quanto piccolo, profondo otto piedi e largo dodici), per presentare in qualche maniera Iolanda Lang e la sua danza, ormai di fama mondiale, della «Bella e la Bestia».

Il discorsetto non meritava per la verità molta attenzione: l’annunciatore aveva rinunciato al suo spirito ironico ed era pateticamente idiota, pensò Sweeney. Cercò di non ascoltare l’orazione sul coraggio della brava, forte, piccola donna che si era alzata dal suo letto di dolore per obbedire al richiamo dell’arte e al desiderio del suo pubblico, per rivivere dinanzi a esso la più sensazionale e meravigliosa danza del mondo, con l’aiuto del cane più meravigliosamente istruito del mondo, il cane che era anche il più coraggioso, che aveva coraggiosamente salvato la vita della padrona, rischiando la propria, ed era anche stato colpito, ma coraggiosamente aveva… Sweeney non poté sopportare il seguito e disse a Bline: — Chi crede di presentare quell’imbecille? Giovanna d’Arco?

Bline sussurrò: — Ssst… — e Sweeney dovette prestare ascolto per altri quarantacinque secondi, poi, grazie al cielo, la storia finì: nulla può durare in eterno, nemmeno un presentatore con un’incredibile capacità drammatica. Le luci si abbassarono e la sala divenne silenziosa. Miracolosamente quieta come se le duecento persone trattenessero tutte il respiro. Avreste potuto udire distintamente lo scatto dell’interruttore, quando il riflettore si accese in fondo alla scala, proiettando sul palcoscenico un cerchio vivo di luce gialla. Tutti gli sguardi erano fissi su quel cerchio, a sinistra del palcoscenico. Un tamburo cominciò a battere in sordina e il suo ritmo costrinse Sweeney a rivolgere l’attenzione al trio orchestrale: non c’era più. Cioè, due terzi del trio erano scomparsi, il pianista e il sassofonista. Il batterista aveva abbandonato tutti i suoi strumenti e sedeva davanti a un solo grande tamburo, dal suono basso, con due bacchette dalle grosse teste imbottite.

“Bello” pensò Sweeney e si domandò se il merito di quell’innovazione andasse a Iolanda o al suo agente. Era un ritmo ossessivo, senza musica, poiché neppure il più rumoroso dei batteristi riuscirebbe a creare una melodia, con delle bacchette imbottite, fuori della portata dei suoi timpani e campanelli e piatti vari.

Il tamburo rimbombava con un lento crescendo, e la luce si oscurò del tutto: nell’oscurità avreste potuto cogliere l’ombra di un movimento, poi d’improvviso il cerchio giallo si riaccese luminoso, e Iolanda ne era al centro, immobile.

Era splendida, su ciò non esisteva possibilità di dubbio. L’immagine che Sweeney aveva conservato nella sua mente non era neppure vagamente esagerata. In quell’attimo pensò che Iolanda era la donna più bella che avesse mai visto e dal sospiro collettivo del pubblico comprese di non essere il solo a provare quella sensazione. Ma che cosa faceva, rifletté, una donna simile in un locale come quello, nella Clark Street di Chicago? Anche se non fosse stata capace di ballare…