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La catena della porta non era chiusa e la serratura era una di quelle a scatto, che doveva essersi chiusa da sé alle spalle dell’assassino, quando era uscito. Non c’era motivo di dubitare che fosse uscito regolarmente dalla porta. Entrambe le finestre dell’appartamento erano spalancate, ma nessuna dava su una scala antincendio e non era possibile fuggire da una di esse, a meno di fare un salto di sei metri nel vuoto per finire su un pianerottolo. Dalla posizione del corpo, la polizia riteneva che l’assassino non fosse nemmeno entrato del tutto nella casa. La Lee aveva ancora in testa il cappello (faceva caldo e la donna non aveva soprabito) ed era evidentemente appena rientrata. Secondo la polizia, l’assassino l’aveva seguita fino a casa e aveva suonato il campanello appena lei era rientrata. Quando la Lee aveva aperto, l’assassino aveva fatto un passo nell’interno e aveva usato il suo coltello. Forse la vittima non aveva avuto neppure il tempo di gridare: e se lo aveva fatto, nessuno aveva udito. La polizia stava svolgendo ricerche per appurare se e quali altri inquilini della casa si trovavano in quel momento nelle loro abitazioni.

Dopo aver compiuto l’impresa — avevano ricostruito i poliziotti — l’assassino era uscito, chiudendo la porta. A parte il cadavere, nell’appartamento non esisteva traccia della sua apparizione, tutto era pulito e in ordine perfetto. La borsetta della Lee giaceva su un tavolino presso la porta e conteneva circa quattordici dollari. Non erano stati asportati né l’orologio né l’anello con un opale che la donna aveva al dito.

Lei aveva lasciato l’ufficio alle due e tre quarti, lagnandosi di un forte mal di denti, e il direttore le aveva consigliato di andare dal dentista e a riposare. Non si erano ancora potuti ricostruire i movimenti della vittima dopo quel momento, ma la polizia andava interrogando i dentisti dei quartieri nord e del Loop, per accertare da quale si era recata la Lee. Il medico della polizia, che l’aveva visitata, aveva riscontrato che doveva davvero essere stata medicata da un dentista: aveva una medicazione in un dente, che sembrava aver sofferto di un ascesso. Se la medicazione non le aveva tolto il dolore, lo aveva fatto l’assassino. Secondo il medico legale, che l’aveva visitata alle cinque e mezzo, la donna doveva essere morta fra le tre e mezzo e le quattro e mezzo, e quando la Haley l’aveva trovata, doveva essere morta da almeno mezz’ora. L’articolo finiva con alcune dichiarazioni del capo della polizia e dell’ispettore Bline, incaricato ufficialmente del caso dello Squartatore.

Sweeney aprì il numero successivo del giornale, alla ricerca di ulteriori particolari. Il dentista si era presentato: era un certo dottor Krimmer, che aveva lo studio in Dearborn Street, a pochi metri da Division Street, e che, riconoscendo la sua cliente dalla fotografia sul giornale, si era presentato alla polizia, prima che questa lo avesse rintracciato.

Dorothy Lee si era recata da lui alle tre, in preda a un violento mal di denti. Non aveva appuntamento ed era una cliente nuova, ma, considerandone le condizioni di sofferenza, il medico l’aveva ricevuta subito dopo il cliente che aveva già in sala. Dovevano essere circa le tre e dieci. La Lee era rimasta nello studio dieci o quindici minuti per sottoporsi alla medicazione provvisoria, destinata soltanto a lenirle il dolore. Il dentista le aveva proposto una seconda visita per la mattina seguente, e la ragazza lo aveva pregato di spostarla al pomeriggio, dato che la mattina era occupata in ufficio. L’appuntamento era stato fissato per le quattro del sabato, al primo momento libero che il medico aveva nel pomeriggio, ma egli le aveva detto pure che, se il dolore fosse stato eccessivo, poteva recarsi nello studio anche prima dell’appuntamento. Il medico non aveva segnato l’ora precisa in cui la cliente aveva lasciato lo studio, ma non potevano essere state più delle tre e mezzo.

Riflettendo su quei particolari, Sweeney constatò che non mutavano la situazione riguardo all’ora del delitto. La Lee poteva essere giunta a casa alle tre e mezzo, prendendo un taxi, e, tornando alla pianta mentale della città, Sweeney rifece la valutazione delle distanze. Tornando a piedi, sarebbe dovuta arrivare a casa alle quattro meno un quarto o alle quattro circa. Sempre che non si fosse fermata per la strada.

Scorse rapidamente il resto dei giornali, ma non trovò altri particolari importanti. Riprese allora il primo e osservò la fotografia della Lee. Gli era vagamente familiare, e ciò non era strano, data la vicinanza delle abitazioni: diamine, era facile che l’avesse incontrata una mezza dozzina di volte. Desiderò di averla conosciuta meglio: in quel caso, l’avrebbe giudicata naturalmente una piccola impiegata sciocca, vanitosa ed egocentrica che preferiva Berlin a Bach e le Confessioni romantiche ad Aldous Huxley. Ma la morte l’aveva trasfigurata, e cose simili non avevano più alcun peso. E forse anche nella realtà non hanno peso. Rinunciò alle speculazioni sottili per occuparsi del problema immediato. L’assassino, lo Squartatore.

Dunque, Bline aveva ragione per quanto riguardava l’alibi di Greene: non era perfetto, ma era buono. Se l’alibi, confermato da un giudice e da due avvocati, lo riparava sino alle quattro e dieci, Greene sarebbe potuto giungere in taxi a cogliere di sorpresa la Lee solo nel caso che lei si fosse fermata nel tratto di strada tra lo studio del dentista e la sua abitazione. Ma non era ammissibile. Una corsa dal tribunale a…

Maledetto Greene, pensò. Se solo avesse potuto eliminare del tutto Greene, sarebbe forse riuscito a costruire qualcosa di positivo in un’altra direzione. Si alzò per passeggiare su e giù, cercando di riflettere. Guardando l’orologio, vide che non era ancora mezzanotte. Forse avrebbe potuto quella notte stessa eliminare Greene. E forse, con molto maggior piacere, avrebbe potuto incriminarlo. Un tentativo di furto, ben eseguito, avrebbe soddisfatto i suoi dubbi.

E, deciso, afferrò la giacca e il cappello.

XII

Chiuse la porta, lasciando la statuetta sola a urlare nel buio. Si fermò al telefono nell’atrio e chiamò un modesto albergo di Clark Street. Quando ebbe chiesto una certa stanza, gli rispose una voce annoiata.

— Ehlers? — domandò Sweeney. — Qui è Sweeney.

— Al diavolo, Sweeney. Sono appena rientrato. Sono stanco. Ma da quando mi chiami Ehlers, invece di Jay?

— Dalla notte scorsa.

— Come?!

— Da ieri notte — sillabò chiaramente Sweeney — quando sei entrato in camera mia senza permesso.

— Cosa? Senti, Sweeney, avevo degli ordini. E poi che cosa è venuto in mente a Bline di spifferarti che sono stato io?

— Non me lo ha detto Bline. E non c’erano ordini.

— Oh, va’ all’inferno! — esclamò Ehlers. — Che cosa vuoi, adesso? Che venga in ginocchio a chiederti scusa?

— No — rispose Sweeney. — Una cosa più difficile e più utile. Vestiti mentre ti raggiungo. Ci metterò dieci minuti, in taxi.

Depose il ricevitore e, dopo un quarto d’ora, bussava alla porta di Ehlers. Jay aprì e lo invitò a entrare. Era leggermente imbarazzato e combattivo insieme. Non aveva indosso la cravatta né la giacca, ma per il resto era completamente vestito.

Sweeney si accomodò sul letto, accese una sigaretta e guardò Ehlers.

— Dunque — disse — tu hai pensato che io fossi l’assassino.

— Non lo pensavo io, Sweeney. È stato il capo.

— Certo, e per suo conto poteva anche essere. Bline non mi conosceva. Non era mio amico da dieci e più anni. E ha mandato te e qualche altro a prendermi, insieme con le armi che avreste potuto trovare da me. Io non c’ero e tu hai avuto la brillantissima trovata di mostrare la tua abilità, aprendo la mia stanza per frugarci dentro. Tu non hai eseguito degli ordini, li hai superati. E tutti i bicchierini bevuti insieme in dodici anni di amicizia, tutte le partite a carte, tutti i soldi che ci siamo prestati a vicenda? E quella volta che… all’inferno, non voglio stare a parlartene.