Il volto di Ehlers si era coperto di rossore. Disse: — Ricordo benissimo quando tu mi hai salvato dal licenziamento, non hai bisogno di ricordarmelo. Va bene: avrei dovuto pensarci su due volte. Ma c’è qualcos’altro o sei venuto qua solamente per sfogarti?
— No, c’è uno scopo. Ti offro un’occasione per cancellare quel che hai fatto. Voglio che tu mi apra una porta, la porta dell’ufficio di un tale.
— Sei impazzito, Sweeney? Di chi?
— Di Doc Greene.
— Non posso farlo, sei matto!
— Eri matto forse tu quando hai aperto la mia porta? E lo hai fatto di tua volontà, senza ordini e mandati.
— Ma è diverso, Sweeney. Per lo meno avevo degli ordini da eseguire. Mi avevano detto di portare al laboratorio il tuo rasoio e qualunque coltello tu avessi. Che cosa vuoi cercare nell’ufficio di Greene?
— La stessa cosa. Solo che non me ne occuperò, se non saranno insanguinati e se non troveremo un elemento che possa incriminare Greene.
— Non penserai che Doc sia sul serio lo Squartatore?
— Voglio accertarmene in un modo o nell’altro.
— E se ci pescano?
— Ci avranno pescato. Cercheremo di tirarci fuori.
Ehlers fissò Sweeney e scosse la testa. — Non posso, Sweeney. Perderei il posto, qualunque cosa potessimo raccontare. E dovrei passare di grado tra pochi mesi.
— Passerai di grado di nome, ma non di fatto.
— Cosa vuoi dire?
— Che non siamo più amici, Ehlers — rispose Sweeney — che tu scomparirai dalla lista degli amici del “Blade”, che dirò una buona parola a tutti i giornalisti e cronisti che conosco, che non vedrai scritto il tuo nome se da solo fermerai una banda di ladri in una banca, ma lo vedrai a lettere cubitali se sputerai sul marciapiede. Significa che questa è l’unica occasione per te di cancellare la vergogna dello sporco gioco che mi hai fatto e, se tu non l’afferri al volo, perdio, metterò in moto ogni mio potere, nella polizia come nella stampa, per crearti dei guai.
— Cosa? Maledizione, non puoi…
— Posso sempre tentare. Comincerò domani denunciando la polizia del dipartimento per aver eseguito una perquisizione senza mandato, scassinando la porta della mia camera e asportando oggetti.
Ehlers cercò di ridere. — Non potrai ottenere niente.
— Certo che no. Ma non credi che sarà aperta una piccola inchiesta da parte degli ispettori, per appurare come stanno le cose? Salteranno addosso a Bline, e Bline dirà la verità. E pescheranno te, per evitare che i danni ricadano sul dipartimento. Io non potrei dare le prove della mia asserzione, a lungo andare, che tu ci sia o no immischiato, ma avresti parecchio da sudare con i superiori lo stesso. All’inferno il tuo grado: torneresti nella bassa forza a far pattuglie notturne, da non poterne più.
— Non faresti mai una cosa simile, Sweeney.
— Credevo che tu non avresti mai perquisito la mia stanza e mi sbagliavo. Tu credi che io non lo farei, e ti sbagli.
— Dov’è l’ufficio di Greene? — Ehlers era sudato, ma forse solo a causa del caldo.
— Al palazzo Goodman, non lontano da qui. Io conosco la casa e non ci saranno disturbi o pericoli. Non occorrerà più di un quarto d’ora.
Vide di aver vinto la partita e sorrise. — E prima ti offrirò da bere. Che poco fegato, se hai più paura di Greene che di me!
— È diverso, Sweeney.
— Infatti: io ero un tuo amico, e Greene no. Andiamo.
Dopo che ebbero bevuto il bicchierino per rincuorare il «fegato» di Ehlers, in taxi raggiunsero il palazzo. Era una costruzione di una decina di anni di vita, destinata a uffici, occupata da avvocati, agenti, impresari in buone condizioni, seppure non dei più floridi e, come Sweeney sapeva, da parecchi scommettitori e da una sala di pugilato di terz’ordine.
Come Sweeney aveva previsto, era il tipo di casa aperta ventiquattr’ore al giorno, per quegli inquilini che preferiscono il lavoro notturno. Passarono sul marciapiede di fronte al palazzo e scorsero molte luci ancora accese alle finestre. Nell’ingresso potevano vedere il ragazzo dell’ascensore, che leggeva un giornale, seduto accanto alla porta aperta della cabina.
Continuarono a camminare ed Ehlers domandò: — Dobbiamo correre il rischio di farci portare su da lui? Possiamo mandarlo a dormire per un’oretta, ma sarà sempre in grado di riconoscerci.
Attraversarono la via, e Sweeney rispose: — Cercheremo di non colpirlo. Adesso aspetteremo, per poco, fuori senza farci vedere; quando sentiremo l’ascensore salire, potremo attraversare l’atrio senza farci vedere.
Ehlers accettò con piacere l’idea e attesero quieti fuori della porta, finché, dopo solo dieci minuti, udirono il ronzio dell’ascensore che partiva, mentre rimbombava ancora il colpo della porta che si chiudeva. Passando nell’atrio, Sweeney lesse il numero dell’ufficio di Greene, 411, e presero a salire le scale. Mentre si trovavano sul pianerottolo fra il secondo e il terzo piano, passò l’ascensore in discesa. In punta di piedi, arrivarono al quarto piano, dove si trovava il 411. Nessun altro ufficio sul piano fortunatamente sembrava occupato. Ehlers non dovette così applicare speciali precauzioni per fare uso dei suoi arnesi: la porta fu aperta in sette minuti precisi.
Appena entrati, accesero la luce e chiusero l’uscio. Era un buco, contenente una scrivania, un tavolo, un mobile, un armadio e tre sedie.
Sweeney spinse indietro il cappello, guardandosi in giro. — Non ci vorrà molto, Jay — annunciò. — Siediti e riposati. Tu hai fatto la tua parte, a meno che non trovi un cassetto chiuso. Ma non vedo serrature.
Il primo cassetto del mobile conteneva un paio di soprascarpe, una mezza bottiglia di whisky e due bicchieri polverosi. Il secondo cassetto era vuoto, il terzo era pieno di corrispondenza, tutta in arrivo. A quanto sembrava, Greene non batteva mai le sue lettere con copia. Sweeney notò con disappunto che le lettere erano solo approssimativamente raccolte in ordine cronologico. Non c’era una cartella a parte per Iolanda. Ma non sprecò troppo tempo con i cassetti del mobile, limitandosi a dare un’occhiata alle lettere sparse riponendole subito. Tutto quel che ne ricavò fu che Doc faceva davvero l’agente e aveva altri clienti per i quali otteneva delle scritture, benché, evidentemente, non in luoghi molto raffinati o famosi.
Lasciò il mobile e si dedicò all’armadio. Sul ripiano vi erano oggetti di cancelleria, da un gancio pendeva un impermeabile, e una macchina da scrivere portatile era posata sul fondo. Cercò nelle tasche dell’impermeabile, ma non vi erano che un fazzoletto sporco e due vecchi programmi teatrali. Aprì l’astuccio della portatile e constatò che conteneva veramente una macchina da scrivere.
Assomigliava molto a quella che lui stesso aveva posseduto, fino a pochi giorni prima, quando l’aveva venduta per bere. Era la stessa marca e lo stesso tipo, ma, osservandola da vicino, dovette riconoscere che non si trattava della stessa macchina; una scoperta che lo avrebbe riempito di gioia.
Il cassetto del tavolo non conteneva nulla di più interessante di un vecchio compasso; due delle tre sedie erano vuote e la terza sosteneva solo Jay Ehlers, che lo scrutava con una certa ironia.
— Bene — disse Jay — trovato qualcosa?
Sweeney grugnì una risposta senza parole e andò alla scrivania. Su di essa stavano un telefono, una cartella di carta assorbente e una stilografica da tavolo. Sotto la cartella, niente. Provò i cassetti. Solamente il primo a sinistra era chiuso a chiave. — Jay — chiamò — questo tocca a te.
Era il cassetto che lo interessava. Mentre Jay lo apriva, esaminò rapidamente gli altri. Non contenevano niente di importante per Sweeney, tranne forse uno, con una bottiglia di whisky piena. Ma in quel momento non poteva occuparsene.