Jay aprì il cassetto e guardò l’orologio. — Muoviti, Sweeney. Hai detto un quarto d’ora e sono già ventitré minuti. — Dentro il cassetto giacevano una grossa busta scura, dalla scritta Contratti in corso, e un’agenda. Sweeney sfogliò prima l’agenda: era un libro-giornale, che elencava in ordine cronologico entrate e uscite. Vide che non gli sarebbe servita a nulla, tranne che per dargli la certezza che Greene era un agente con un legittimo e reale movimento di affari. Probabile che le cifre non fossero esatte, ma erano evidentemente pronte per ogni visita fiscale. Prese infine la busta dei contratti. Ve ne erano una dozzina, ma uno solo interessava Sweeney: quello fra l’“El Madhouse” e Iolanda Lang. Il contratto parlava di duecento dollari la settimana per le prestazioni di Iolanda e di Demonio. Ma né Iolanda né il cane avevano firmato. Le firme erano di Nick Helmos e di Doc Greene. Sweeney alzò un sopracciglio. — Forse che lei non sa scrivere?
— Chi non sa scrivere?
— Posso capire che il cane non abbia firmato…
— Dimmi un po’, io credevo che tu cercassi un rasoio o una lama…
Sweeney sospirò: il vero oggetto delle sue ricerche era stata una statuetta nera. Ma se ne era Doc il possessore, la teneva a casa o in albergo, o comunque nel posto in cui viveva, e non in ufficio. E ammettendo pure che a quell’ora egli potesse scoprire l’abitazione di Doc, non poteva sfidare la sua fortuna al punto di rubarla in quella notte. E infine, perché non riusciva ad allontanare Doc Greene dalla sua mente, così da potersi concentrare su qualche altra traccia? Una visita a Brampton, nel Wisconsin, per esempio, a quello scultore… come si chiamava? Chapman Wilson… che aveva creato la statuetta. Era un indizio, uno qualunque, che avrebbe potuto condurlo a un risultato. Ma non sapeva quale risultato e come. O forse anche, ritornando a Greene, sarebbe stata utile una capatina a New York per controllare se il suo alibi fosse solido al cento per cento. La polizia poteva anche non aver scavato in profondità, accontentandosi di averlo visto registrato in un albergo.
Oppure, se avesse avuto a disposizione del denaro, avrebbe potuto assoldare un investigatore privato di New York, risparmiandosi il viaggio. Ma sarebbe stata una spesa a carico di Sweeney, perché il “Blade” non l’avrebbe mai accettata. Maledetto il denaro! Possedeva ancora circa cento dollari di quelli datigli da Walter Krieg, ma, col ritmo che avevano nello scomparire dalle sue mani, sarebbe riuscito appena ad arrivare alla fine dei dieci giorni mancanti prima del nuovo pagamento del “Blade”. Era solo a spendere denaro per lo Squartatore o per Iolanda.
Udì Jay muoversi inquieto e tornò a osservare il contratto. — Un minuto solo, Jay — disse.
Rilesse attentamente il contratto e corrugò la fronte. Esaminò uno dei paragrafi per essere certo che dicesse proprio quel che gli era sembrato e ne fu rassicurato. Ripose il contratto insieme agli altri nella busta e la busta nel cassetto. Poi permise a Jay di richiuderlo.
— Allora, hai trovato quel che cercavi? — domandò Jay.
— No. Cioè, sì. Non quel che cercavo, ma qualcosa di buono sì.
— Che cosa?
— Sia dannato se lo so — rispose Sweeney. Ma riteneva di esserne perfettamente consapevole. Avrebbe trovato il denaro, a patto di correre un rischio.
Jay brontolò, mentre la serratura scattava a posto: — Allora andiamo. Filiamo fuori di qui. Ne parleremo davanti a un bicchiere di qualcosa.
Sweeney spense le luci e attese sul pianerottolo che Jay richiudesse la porta del 411.
Discesero al secondo piano e là Sweeney schiacciò il bottone di chiamata dell’ascensore. Appena udirono il tonfo della porta che si chiudeva, si precipitarono per le scale e furono al primo piano, nell’attimo in cui la porta dell’ascensore si apriva al secondo. Uscirono dall’edificio mentre ancora l’ascensore in discesa si fermava al primo piano.
Ehlers disse: — Il ragazzo dell’ascensore dirà che qualcuno lo ha fatto salire in modo da uscire dal palazzo senza farsi vedere.
— Certo che lo dirà, ma intanto non ci ha visto e non ci potrà seguire.
Infatti, l’uomo dell’ascensore non ci provò neppure.
Prima di chiamare un taxi, attesero di aver voltato l’angolo, poi, alla domanda di Sweeney, Jay suggerì di andare da Burt Meaghan: era a due passi dal suo albergo e sarebbe potuto rientrare a piedi. Da Burt, Sweeney stava per avvicinarsi al banco, quando Jay lo prese per un braccio. — Dobbiamo parlare un poco in privato.
Al tavolo egli fissò Sweeney, aspettando che il cameriere fosse venuto a prendere gli ordini e poi a portare i bicchieri. Quando furono soli, disse: — Allora, Bill. Ho scassinato la tua porta e non avrei dovuto. Però ne ho scassinato un’altra per farti piacere e così siamo pari. Giusto?
— Giusto.
— Siamo amici?
— Amici. Tutto è dimenticato.
— Allora cominciamo da qui — disse Jay. — Adesso siamo amici, ma non lo resteremo se tu vuoi andare avanti senza di me. Fuori la storia: voglio sapere perché sei andato nell’ufficio di Greene, che cosa cercavi e che cosa non hai trovato. Io sono un poliziotto, Sweeney, e lavoro al caso dello Squartatore. Sono agli ordini di Bline, d’accordo, ma ci lavoro anch’io. E voglio sapere a che punto siamo. Non posso costringerti a parlare, perché tu hai il coltello dalla parte del manico. Non posso raccontare a Bline e a nessun altro che tu sei andato nell’ufficio di Greene, perché perderei il posto per quel che ho fatto. Tu sei in una botte di ferro, va bene, ma perdio, se tu non parlerai, ti cancellerò io dalla lista degli amici.
Sweeney assentì. — D’accordo, Jay. Dunque, io avevo un forte sospetto che lo Squartatore fosse Greene. Senza un motivo preciso: una fissazione, dovuta al fatto che quell’individuo mi è odioso. E un’altra piccola considerazione: il ruolo gli si adatta. Psichiatra o no, è uno psicopatico. Due ore fa, all’“El Madhouse”, l’ho stuzzicato, e lui ha minacciato di uccidermi. A voce alta e davanti alla polizia. Davanti all’ispettore Bline, per essere precisi. E ad altri due poliziotti, Ross e Swann, seduti allo stesso tavolo. E io l’avevo provocato apposta per farlo scattare.
— All’inferno! Ma che cosa c’entra l’ufficio con questo?
— Speravo di trovarci un elemento che mi permettesse di farla finita con Doc Greene, colpevole o no. Ma, parola d’onore, non l’ho trovato, Jay. Non ho trovato un maledetto minimo indizio che provasse che lui è lo Squartatore, ma neppure che non lo è. Tranne la prova che fa sul serio l’agente teatrale, come lui sostiene.
— Continua. Che cosa hai trovato?
— Qualcosa che mi interessa personalmente. Il contratto tra Iolanda e Demonio e l’“El Madhouse”. E c’è in quel contratto una clausola di cui vorrei fare uso. Ma un uso illegale: preferirei che tu non ne fossi al corrente.
— In che modo illegale?
— Per avere la somma che mi occorre.
— Da chi?
— Dal padrone dell’“El Madhouse”.
— Parli di Nick Helmos o di Harry Yahn?
— Di Yahn. Nick è solo un prestanome.
Jay Ehlers si morse le labbra e guardò per un poco il suo bicchiere, poi disse: — Attento, Bill. Harry Yahn è un osso duro.
— Lo so. Ma riuscirò a morderlo. Con un morso abbastanza piccolo da non spingerlo a muovere le sue batterie contro di me. È duro, ma intelligente: non corre rischi per stupidaggini.
— Quanto a me, preferirei aver a che fare con lo Squartatore.
— Anch’io — sogghignò Sweeney. — Ma devo toccare Yahn per avere il mezzo di trovarmi davanti allo Squartatore.
— Tu sei pazzo, Bill.
— Lo so. Un altro bicchiere?