— Alle undici e un quarto — gli rispose un ferroviere.
Sweeney guardò l’orologio appeso al muro e vide che erano le quattro e mezzo. — C’è un aeroporto vicino, da cui si possa prendere un aereo per Chicago?
— Un aereo per Chicago? Mi pare che il più vicino sia l’aeroporto di Rhinelander. Potete trovarlo lì.
— Come ci arrivo a Rhinelander?
— In treno — rispose l’uomo — con quello delle undici e un quarto. È il primo che vada fin là.
Sweeney tirò una maledizione. Comperò un biglietto per Chicago e fece telegrafare dal ferroviere per riservargli un letto: almeno sarebbe arrivato a Chicago la domenica mattina con una buona nottata di sonno alle spalle. Sedette su una panchina della stazione e si domandò come avrebbe potuto occupare quelle sette ore di attesa, senza bere da ammazzarsi. Se avesse cominciato, non avrebbe preso il treno e la giornata seguente sarebbe stata perduta, l’ultima giornata libera prima di rientrare al “Blade”. Sospirò e decise che dato che si trovava là senza nulla da fare per ammazzare il tempo, tanto valeva parlare con Charlie-Chapman Wilson.
Ma ormai aveva perduto ogni entusiasmo in proposito. Era apparso tutto così bello, quando lo sceriffo aveva accennato a un pazzo Charlie Wilson e a una bella donna bionda assalita da uno Squartatore. Tanto bello che per reazione ora avrebbe voluto non conoscere nemmeno l’esistenza di Brampton, Wisconsin.
Gli restava sempre la statuetta, come traccia, ma ora doveva andare in avanti, invece che all’indietro, a cercare lo Squartatore che possedeva l’altra copia. Il rintracciarla all’origine aveva mostrato solo una coincidenza, ma una coincidenza che confermava l’idea che la statuetta dovesse avere grande influsso su uno Squartatore: in certo senso, era nata a causa di uno squartatore. Soltanto, purtroppo, non si trattava di quello all’opera a Chicago.
Bene, avrebbe potuto parlare con Chapman Wilson. E se era un ubriacone, una bottiglia sarebbe stata il modo migliore per invitarlo a chiacchierare. Comperò una bottiglia di whisky, da un quinto, mentre si recava da Main Street in Cuyahoga Street. Trovò facilmente la casupola dipinta di verde, con una baracchetta sul retro. Ma nessuno rispose al battere delle sue nocche sull’uscio.
Provò la porta della baracchetta, ma neanche lì vi fu risposta. Però era aperta: vi era solo un gancio all’interno e Sweeney lo alzò dalla fessura ed entrò. Un angolo era chiuso da un paravento per evidenti ragioni e nell’angolo opposto, senza alcun riparo o divisione, vi era la rudimentale doccia descritta dallo sceriffo.
Un cordone appeso accanto alla porta serviva per accendere e spegnere la luce, una lampada nuda in mezzo al soffitto. Sweeney l’accese e vide sul muro di fronte, tra la doccia e il paravento, il punto su cui era finito il colpo di fucile: ci era stato inchiodato sopra un pezzo di tappezzeria.
Tornò a guardare nell’angolo della doccia e rabbrividì immaginando una figura come la sua statuetta, a grandezza naturale, diversa solo perché di un morbido biancore, invece che di dura materia nera, là, in piedi, urlante, con le tenere braccia rotonde tese in un indicibile terrore, per ripararsi. Spense la luce e chiuse la porta. Non c’era da meravigliarsi che la povera creatura ne fosse impazzita.
Tornò alla casa e bussò di nuovo. Poi si avvicinò alla casa vicina e bussò anche lì. Gli aprì un uomo dai grossi baffi rigidi, al quale Sweeney domandò se sapesse se Charlie Wilson era a casa o sarebbe tornato presto.
— Dovrebbe tornare presto, credo. L’ho visto andare in città due ore fa e torna sempre a casa a prepararsi la cena; non mangia in città.
Sweeney lo ringraziò e tornò alla casa dell’artista. Erano le cinque e cominciava a far buio; poteva aspettare o fare qualunque altra cosa gli saltasse in mente.
Sedette sul gradino d’ingresso e depose la bottiglia incartata sull’erba accanto al gradino, resistendo al desiderio di aprirla prima dell’arrivo di Charlie.
Erano le sei ed era sceso il crepuscolo, quando vide giungere Charlie. Lo riconobbe facilmente dalla descrizione di Henderson: un metro e mezzo e cinquantadue chili. Sembrava ancora più piccolo, forse perché non era ubriaco, almeno in apparenza.
Di età poteva andare dai venticinque ai quarantacinque anni, pensò Sweeney, mentre quello si avvicinava. Era senza cappello e i capelli spettinati avevano il color della paglia; gli abiti erano malconci e la barba risaliva ad almeno due giorni prima. Gli occhi avevano uno sguardo vitreo.
Sweeney si alzò in piedi. — Il signor Wilson?
— Sì. — La testa gli arrivava giusto al mento di Sweeney.
Sweeney porse la mano. — Sweeney. Vorrei parlarvi di una statuetta scolpita da voi: una ragazza che urla.
La mano di Wilson avanzò, superando quella di Sweeney senza stringerla, si chiuse a pugno e raggiunse lo stomaco dolorante del giornalista. Lo stomaco diede in un urlo silenzioso e cercò di contrarsi fino ad appoggiarsi sulla schiena.
Quanto a Sweeney, articolò un suono impreciso e si ripiegò in due, mettendo così il suo mento alla portata del suo avversario Charlie. Infatti il pugno di Wilson lo colpì, facendolo vacillare, ma senza raddrizzarlo. In quel momento nulla avrebbe convinto Sweeney a rialzarsi. Nulla al mondo. Non si era nemmeno accorto del colpo sul mento, per l’intensità del dolore allo stomaco: quando avete una gamba in una tagliola non fate caso alla puntura di una zanzara.
Sweeney indietreggiò, sempre ripiegato su se stesso, fino a sedersi sul gradino, con le mani strette sullo stomaco a protezione. Non gli interessava che Wilson lo colpisse in faccia, purché non gli toccasse lo stomaco. Niente al mondo lo interessava, tranne che proteggere il suo stomaco. Sempre comprimendolo con le mani, si piegò da una parte e rigettò.
Quando si fu abbastanza ripreso da poter guardare in su, scorse Wilson che a braccia incrociate lo fissava con profondo stupore. La sua voce risuonò sorpresa come il suo viso. — Ch’io sia dannato! Vi ho battuto!
Sweeney grugnì. — Grazie.
— Ma non vi ho fatto proprio male, vero?
Sweeney rispose: — È una cosa carina. Tutto è molto bello qui. — E rigettò di nuovo.
— Non avevo intenzione di farvi male, davvero. Ma, diavolo, ogni volta che cerco di fare a pugni con qualcuno le prendo, così provo a piazzare qualche colpo finché sono in tempo. Volete qualcosa da bere? Devo avere del gin dentro. Dentro la credenza, voglio dire, non dentro di me. Lì c’è whisky.
— Whisky?
— Sì, dentro di me. Volete un sorso di gin?
Sweeney raccolse la bottiglia accanto al gradino. — Se volete aprire questa…
Wilson l’aprì con l’angolo di una chiave e con i denti, porse la bottiglia a Sweeney, che ne bevve un lungo sorso, poi gliela restituì. — Bevete anche voi. All’inizio di una bella amicizia.
— Odio i giornalisti.
— Oh, capisco — rispose Sweeney. — Che cosa vi ha fatto pensare che io fossi un giornalista?
— Siete il terzo in una settimana. E se no chi altri…? — Uno sguardo meravigliato gli apparve negli occhi.
— Già, chi altri? Ma provate a guardare da un’altra parte. Voi siete Chapman Wilson?
— Sì.
— Io mi chiamo Sweeney, Mortimer Sweeney. Della Ganslen Art Company, di Louisville.
Charlie Wilson si strinse la fronte tra le mani. — Oh, Dio!
— Potete ben dirlo.
— Sono desolato, veramente. Sentite, adesso riuscite a stare in piedi? Così potrò aprire l’uscio. Cioè no, state fermo, ho una maniera migliore. Vado dentro dall’altra parte e vi apro dall’interno, per aiutarvi.
Entrò in casa dalla parte della baracca, con un aspetto molto più normale e vivo di quando era arrivato. Sweeney udì aprirsi la porta sul retro e poi quella dell’ingresso, che gli sfiorò la schiena.
La voce di Wilson disse: — Scusate, avevo dimenticato che si apre verso l’esterno. Dovete alzarvi per forza perché io possa aprire. Ce la fate?