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Sweeney si alzò. Non del tutto, ma quanto bastava per spostarsi ed entrare una volta aperto l’uscio. Si abbandonò sul primo sedile che gli si trovava vicino: una sedia sgangherata, senza spalliera; ma la cosa non aveva importanza, dato che non provava il minimo desiderio di abbandonarsi all’indietro.

La luce era accesa, una lampada in mezzo al soffitto, come nella baracchetta. Wilson stava lavando due bicchieri nel lavandino in un angolo. Il lavandino era pieno di piatti, mentre la scansia sopra all’acquaio era vuota. Era evidente che Wilson lavava i piatti quando e se ne aveva bisogno invece di usare il sistema più ortodosso di lavarli ogni volta che li aveva adoperati.

Dalla bottiglia di Sweeney versò un’abbondante dose nei due bicchieri e ne porse uno al giornalista.

Sweeney ne bevve un sorso e si guardò intorno: i muri, senza escluderne neppure un centimetro, erano coperti di tele non incorniciate. Paesaggi alla maniera di Cézanne e interessanti disegni astratti, ma Sweeney non era un conoscitore tanto profondo da giudicare quale fosse il loro valore reale. Avrebbe detto però senz’altro che non erano male. Non c’erano, a quanto pareva, ritratti né figure.

Da una parte, su un piedestallo da scultore, spiccava l’abbozzo di quello che, una volta finito, sarebbe stato un gladiatore.

Wilson aveva seguito lo sguardo di Sweeney. — Non guardate quell’affare — disse — non è finito ed è orribile. — Attraversò la stanza e gettò un panno sopra la statuetta di creta, poi sedette dalla parte opposta della camera, di fronte a Sweeney.

Questi cominciava a star meglio. — Non è male — disse — il gladiatore. Ma direi che l’olio è il vostro vero mezzo espressivo e che le statuette sono dei ripieghi. Vero?

— Non del tutto, signor Sweeney. Naturalmente, se voi non foste della Ganslen, direi di sì. Comunque, che cosa desiderate da me?

Sweeney si era già posto quel problema. Non sapeva nulla dell’organizzazione della ditta di Louisville e, peggio ancora, non sapeva fin dove Wilson ne fosse al corrente: poteva anche aver visitato la sede ed essere amico dei principali. Inoltre, egli non desiderava affatto fare o rifiutare acquisti. Disse: — Sono solo un viaggiatore di commercio della ditta, ma quando il principale ha sentito che passavo da Brampton durante il viaggio, mi ha raccomandato di fermarmi da voi.

— Signor Sweeney, credete, io sono davvero spiacente di…

— Non fa nulla — mentì Sweeney — ma ditemi piuttosto: come va la storia dei due giornalisti, quei due che sono stati da voi? Di quali giornali e perché?

— Dei giornali di St. Paul. No, uno forse era di Minneapolis. Era per quella statuetta di cui parlavate anche voi. È per questo che ho creduto che anche voi foste un giornalista, mi pare. Voi invece che cosa volevate sapere?

— Prima ditemi che cosa cercavano quei due imbec… quei giornalisti sulla statuetta.

Wilson aggrottò la fronte. — Era per quei delitti dello Squartatore di Chicago: volevano un resoconto di quando io ammazzai quel pazzo, quattro o cinque anni fa. Sapevano già della statuetta che avevo fatto di Bessie, perciò penso che avessero parlato con lo sceriffo Pedersen prima di venire da me.

Sweeney bevve pensosamente un sorso di whisky. — L’avevano vista, o avevano una fotografia?

— Mi pare di no. Tutto quel che domandavano, era a quale ditta l’avevo venduta. Se l’avessero vista, non avrebbero avuto bisogno di domandarmelo: il nome è inciso sulla base.

— Allora lo sceriffo della città è al corrente che voi avete scolpito la statuetta, ma non sa a chi l’avete venduta?

— Infatti. E non l’ha mai veduta. C’è stata tutta una chiassata in proposito una sera che mi ha condannato per disordini.

Sweeney annuì, sentendosi risollevato. I giornali di St. Paul e Minneapolis dunque non erano in possesso della parte più importante della storia della statuetta. Ne conoscevano i punti più secondari, quelli che anche lui aveva appreso quel giorno dall’ex sceriffo, ma non sapevano l’essenziale, cioè che lo Squartatore ne possedeva una copia. E non ne avevano neppure una fotografia. Tutto quel che potevano tirar fuori era una rievocazione della vecchia storia locale, che sarebbe apparsa sui loro giornali, ma non sarebbe stata trasmessa a tutto il paese dai cavi dell’“United” e dell’“Associated Press”, per guastare il piano di Sweeney.

Wilson si appoggiò al muro e accavallò le gambe. — Ma la Ganslen perché vi ha mandato a parlare con me, Sweeney?

— Una faccenda che temo non potrà funzionare, se voi non volete pubblicità sulla statuetta e sulle sue origini. Vedete, così come stanno le cose ora, quel pezzo è per noi una perdita. Ne abbiamo fatto una partita, per provare, ma la si vende troppo lentamente per giustificare un quantitativo forte. Abbiamo in magazzino quasi un centinaio di copie, che sembra non vengano ricercate da nessuno.

Wilson annuì. — Io l’avevo detto al signor Burke, quando l’ha comperata. È una di quelle cose che vanno così: o piacciono moltissimo o non piacciono affatto.

— A voi, da un punto di vista d’artista, come sembra? Come la giudicate?

— Io… non so, Sweeney. Vorrei non averla mai scolpita, né mai venduta. È troppo… personale. Gesù mio, rivedo Bessie là in piedi che urla, come l’ho vista allora dalla porta… ecco, l’immagine si era fissata nella mia mente finché ho dovuto riprodurla, per cancellarla. Mi ha perseguitato fino all’anno scorso. Dovevo dipingerla o scolpirla e siccome col pennello la figura non mi riesce molto, l’ho modellata in creta. Una volta finita, avrei voluto distruggerla. Ma l’avevo appena terminata, che è arrivato il signor Burke in uno dei suoi viaggi e gli è piaciuta. Non volevo vendergliela, ma lui ha insistito e io avevo un tale bisogno di soldi che non ho saputo resistere. È stato come vendere mia sorella, l’ho sentito così bene che sono rimasto ubriaco per una settimana. Così anche i soldi non mi son serviti a nulla.

— Capisco quel che dovete aver provato — assentì Sweeney.

— Ma io ho detto al signor Burke che non volevo nessuna pubblicità in proposito e lui ha promesso che non avrebbe raccontato a nessuno la storia per vendere qualche copia di più. E allora adesso perché torna alla carica?

Sweeney si schiarì la gola. — Ecco… pensava che forse, date le nuove circostanze che si sono presentate, potevate aver cambiato idea. Ma io capisco che siete ancora troppo sensibile su questo punto e non mi proverò nemmeno a insistere.

— Grazie. Ma le nuove circostanze quali sono?

— Quel che vi hanno raccontato i giornalisti di St. Paul. Vedete, proprio in questi giorni, c’è a Chicago uno Squartatore in attività ed è una grossa faccenda non limitata a questa zona, ma di importanza nazionale; una storia di delitti che è forse la più importante dopo quella di Dillinger. In questo momento, battendo il ferro finché è caldo, potremmo venderne una quantità, basando la pubblicità sul fatto che è la figura dal vero di una donna assalita dallo Squartatore, ritratta dalla memoria di uno scultore che ha visto l’aggressione con i suoi occhi e che ha salvato la donna. Ma per fare questo dovremmo raccontare tutta la storia.

— Capisco quel che volete dire. E forse significherebbe anche per me un guadagno extra. Ma… no, credo di no. Come vi ho detto, mi dispiace anche di averla venduta e di aver buttato in pubblico la povera Bessie… Un altro bicchierino? Il whisky è vostro.

— Nostro — rispose Sweeney. — Sapete, Charlie, voi mi siete simpatico. E non l’avrei creduto dopo la maniera in cui mi avete accolto.

Wilson riempì i bicchieri. — Sono sinceramente dispiaciuto di averlo fatto. Ve l’assicuro. Credevo che voi foste un altro di quei maledetti cronisti, come i primi due, ed ero deciso a non tollerarne un terzo.