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Sedette di nuovo con il bicchiere in mano. — Quel che mi piace in voi è che non cercate di convincermi a fare quel che chiede la Ganslen. Se insisteste potrei anche cedere: Dio sa se ho bisogno di soldi e Dio sa se mi farebbe male guadagnarli in questo modo. Anche con i prezzi sbalorditivi che fissate voi, con una pubblicità simile ne vendereste a migliaia. E con tutto quel denaro…

— Quanto denaro? — domandò Sweeney con curiosità. — Burke non mi ha spiegato con precisione quali condizioni vi ha fatto.

— Le solite. Solite per me, perché non so che contratti facciano con gli altri scultori. Per quelle che comperano da me, mi danno cento dollari, fino alle prime mille copie vendute. Fino a quel punto, dice Burke, sono sulle spese ed è solo superando tale cifra che cominciano a guadagnare. È vero?

— Abbastanza — rispose Sweeney.

— Se ne vendessero due o tremila copie, a me verrebbero due o tremila dollari. Ma ancora non è mai successo. E Dio mi aiuti se non succederebbe… in questo caso! Vi ho detto che con i cento dollari avuti per la vendita di quella figuretta di Bessie sono rimasto ubriaco per una settimana: ecco, se prendessi mille o duemila dollari gettando sui giornali tutta la storia un’altra volta, con tutto che lei ormai è morta, mi ubriacherei in tale maniera che non ne uscirei vivo. E se anche resistessi io, non restisterebbe il denaro. Sarei finito e odierei me stesso per il resto della vita.

Sweeney sentì che poteva reggersi in piedi ormai, anche se un po’ incerto, e stese la mano. — Datemi la mano, Charlie. Voi mi piacete.

— Grazie. E voi piacete a me, Sweeney. Un altro bicchiere? Del vostro whisky?

— Il nostro whisky. Certo, Charlie. Ditemi, qual è il vostro nome, Charlie o Chapman?

— Charlie. Chapman è stata un’idea di Bessie. Diceva che era più artistico. Era una bella ragazza, Sweeney. Qualche volta un po’ strana.

— Non lo siamo tutti?

— Io credo di esserlo. Qui mi chiamano tutti matto.

— A Chicago probabilmente chiamano pazzo anche me. — Sweeney alzò il bicchiere. — Vogliamo bere alla pazzia?

Charlie per un istante lo fissò cupamente. — Al nostro genere di pazzia, Sweeney — disse.

— Perché… oh, sì. Alla nostra pazzia, Charlie.

Toccarono i bicchieri e bevvero, e Sweeney si rimise a sedere.

Charlie fissava il bicchiere vuoto. — La vera pazzia è orrenda, Sweeney. Quell’assassino, coperto di sangue, con il coltello ricurvo in mano… E Bessie… era così viva. E vederla andare in pezzi… forse non è giusto dire andare in pezzi, perché implica l’idea di un progredire graduale. Invece lei è diventata pazza in un attimo, davanti a quell’esperienza. Le dicevamo di vestirsi, perché era nuda quando… ma voi avete visto la statuetta, lo sapete… Io credo che sia stato un bene che sia morta, Sweeney. Io almeno preferirei cento volte morire, che impazzire come ha fatto lei.

Si strinse la testa fra le mani.

— Terribile — mormorò Sweeney — e aveva diciannove anni.

— Venti, allora. E quando è morta nella clinica, quattro anni fa, ne aveva ventuno. Ed era bella. Non un angelo, certo. Era selvaggia, qualche volta. I nostri genitori erano morti quando io avevo ventiquattro anni e Bessie quindici, dieci anni prima. Lei è andata da una zia, che ha cercato di educarla, ma poi se ne è scappata a St. Louis. Però con me si faceva viva spesso. E quando cinque anni dopo si è trovata nei guai, è da me che è venuta. Era… be’, quella faccenda con il pazzo l’ha portata fuori di carreggiata. — Alzò gli occhi. — Forse è molto meglio che ormai ne sia fuori: la vita può essere un inferno.

Sweeney si alzò e batté sulla spalla di Charlie. — Non pensateci più, andiamo! — Versò un altro bicchiere a entrambi e infilò quello di Charlie nella mano di lui.

Andò in giro per lo studio a esaminare i dipinti appesi, da vicino. Non erano male, per niente male.

Charlie riprese a parlare. — Eravamo vicini, molto vicini, molto di più di quanto non siano di solito fratello e sorella. Non abbiamo mai mentito uno con l’altro. Lei mi aveva raccontato tutto quel che aveva fatto a St. Louis e tutti gli uomini che aveva incontrato. Era stata cameriera e poi corista in una commedia musicale; ed era quello il suo mestiere quando si è accorta di aspettare un figlio. Allora è venuta qui. E poi quel miserabile scappato…

— Non parlatene più, basta — ordinò secco Sweeney.

— È morto troppo in fretta. Se gli avessi sparato alle gambe invece che al cuore, avrei potuto prendergli il coltello e… ma non l’avrei fatto, lo so. — Scosse lentamente il capo. — In ogni modo, gli ho fatto un bel buco. Tanto grande da farci passare dentro la testa.

Sweeney sospirò e sedette. — Dimenticatelo, Charlie. Parliamo di pittura.

Charlie annuì lento. Parlarono di pittura e poi di musica e poi tornarono alla pittura. La bottiglia di Sweeney fu vuotata e passarono al gin di Charlie. Era discretamente perfido. Dopo un poco, Sweeney trovava difficile fermare lo sguardo sui quadri di cui stavano discutendo, ma la mente gli era rimasta chiara. Abbastanza chiara da rendersi conto che stava trascorrendo una magnifica serata, con una delle conversazioni più interessanti che godesse da molto tempo. Non gli dispiaceva più di essere venuto a Brampton: Charlie gli piaceva, era della sua stessa razza. E teneva bene l’alcol, proprio bene. Aveva la lingua impastata, ma parlava sempre con logica.

Anche Sweeney era in quelle condizioni ed era ancora tanto in sé da tener d’occhio l’orologio. Quando furono le dieci e un quarto, un’ora prima della partenza del treno, disse a Charlie che doveva andare.

— In auto?

— No. Ho prenotato un posto sul treno delle undici e un quarto. Ma c’è un bel po’ di strada per la stazione. Ho passato una splendida serata.

— Non c’è bisogno di andare a piedi. C’è un autobus che percorre Main Street. Potete prenderlo all’angolo. Vi accompagno.

L’aria fredda della notte gli fece bene e cominciò a riportarlo alla sobrietà.

Charlie gli piaceva e avrebbe voluto fare qualcosa per lui. Anzi, d’improvviso vide in un lampo il «modo» di essergli utile. — Charlie — disse — ho un’idea per farvi guadagnare quei dollari con la statuetta, senza la pubblicità che non volete. Deve essere una pubblicità per la statuetta in sé, senza nominare né voi né vostra sorella.

— Va bene, se potete farlo…

— Certo che posso. Proprio da Chicago. Vedete, Charlie, io so qualcosa che nessun altro sa ancora e che può fare un gran chiasso intorno alla statuetta, senza parlare di come sia stata concepita e modellata. Il vostro nome e quello di vostra sorella non c’entreranno neppure.

— Se potete tenerne fuori Bessie…

— Certo, è facile. La vostra storia non è quella che importa veramente, almeno per quello di cui io voglio parlare. È un peccato, ma possiamo non farne cenno. E per quel che vi riguarda, manderò un telegramma alla Ganslen, perché comincino la lavorazione di un grosso lotto di statuette, per averle pronte quando scoppierà la bomba. Sentite, Charlie, non venite mai a Chicago?

— Da un paio d’anni no.

— Quando avrete ricevuto un po’ di quei dollari, venite a passare una serata con me. Vi mostrerò la città. Se arrivate in città di giorno telefonatemi, al “Blade”, in cronaca. Se arrivate di sera, invece, chiamatemi al…

— Cronaca? “Blade”? Voi siete un giornalista?

— Oh, Dio! — esclamò Sweeney disperatamente. Non avrebbe dovuto parlare, avrebbe dovuto mettersi subito e in fretta le mani sullo stomaco. Ma non lo fece.

Il pugno di Charlie arrivò sfiorando il polso di Sweeney e questi si piegò come un burattino, in tempo per ricevere il secondo pugno di Charlie sul mento. Ma, come era accaduto prima, sul mento non lo sentì neppure. Udì Charlie dire: — Sporco vigliacco, figlio di puttana, bugiardo… vorrei che ti alzassi per picchiarti.