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Nulla era più lontano dalla mente di Sweeney, o meglio da quello che restava della sua mente. Non riusciva neanche a parlare, perché, se avesse aperto la bocca, ne sarebbe uscito qualcosa, ma non parole.

Udì Charlie allontanarsi.

XVI

È superfluo descrivere come si sentisse Sweeney: era la terza volta che riceveva un pugno nello stomaco e non era molto diverso dalle prime due, salvo che per il numero. Entrare in particolari sarebbe un sadismo, se non una ripetizione, ed è già sufficiente che egli abbia dovuto sopportarlo per la terza volta, perché voi e io non lo sopportiamo.

Dopo qualche minuto riuscì a sedere sul marciapiede, sempre tenendosi piegato, finché vide e udì arrivare l’autobus e, alzandosi in piedi, per quanto non diritto, arrivò a salirci sopra.

Sull’autobus sedette ripiegato in due, e ripiegato sedette in attesa alla stazione, e infine in treno si ripiegò su se stesso nella cuccetta prenotata. Non riuscì a prendere sonno, pesantemente, altro che alle prima luci dell’alba, quando ormai il treno era in vista di Chicago.

Comunque, nel tempo che impiegò per arrivare a casa, constatò che il peggio era ormai passato e infilatosi a letto, si addormentò. Si risvegliò che era pomeriggio inoltrato (le due e tredici minuti, se volete la precisione assoluta) ed era ormai in grado di camminare diritto.

Era domenica, l’ultimo giorno delle sue vacanze, e si erano già fatte le tre, prima che egli fosse lavato e vestito.

Sceso in strada, si guardò intorno con occhio smarrito, su e giù per Erie Street, finché decise di dirigersi a est, per tentare di scoprire su Dorothy Lee e sul suo assassinio qualcosa che la polizia non avesse scoperto. Non credeva affatto di riuscirci, affatto.

La fortuna lo assisté, facendogli trovare in casa sia il portiere sia la signora Rae Haley, la donna che aveva telefonato alla polizia. Ma non lo assisté nelle risposte dei due: non gli diedero alcun elemento nuovo e utile. In quindici minuti aveva esaurito tutte le domande possibili con il portiere, che non aveva neppure conosciuto bene di persona la Lee. Gli occorse invece un’ora e mezzo per ascoltare tutte le cose che la signora Haley ritenne opportuno comunicargli, e dopo quell’ora e mezzo sapeva di Dorothy Lee molto più di quanto non sapesse prima, e quasi tutto a favore di lei, ma nulla di significativo o di utile per le sue ricerche, se non in senso negativo.

Rae Haley, una donnetta dai capelli tinti e con un trucco leggermente eccessivo per un pomeriggio domenicale in casa, si rivelò per una informatrice di un giornale avversario, ma parve ugualmente ansiosa di parlare con il “Blade” o con Sweeney.

Aveva conosciuto piuttosto bene Dorothy Lee e le era simpatica: «era bella e buona». Sì, era entrata spesso in casa della Lee. E spesso avevano mangiato insieme, alternandosi a cucinare, ognuna nella propria cucina. Non sempre, è naturale, ma parecchie volte ogni settimana. Perciò conosceva bene l’appartamento di Dorothy e, come già Sweeney si aspettava, l’accenno a una «statuetta nera» provocò uno sguardo sorpreso. L’appartamento veniva affittato ammobiliato e Dorothy non era mai andata in giro e comperare statuette o quadri. Aveva, sì, un bel giradischi, con bellissimi dischi: «cose molto dolci e carine». Sweeney nascose un brivido di disgusto.

Sì, Dorothy aveva amici, uomini; qualche volta usciva con alcuni di loro, ma nessuno era stato «una cosa seria». La Haley li aveva conosciuti tutti e ne aveva detto i nomi alla polizia. Non che alcuno di loro potesse trovarsi implicato in quell’orribile delitto, ma la polizia aveva insistito a chiederglieli. A quanto sembrava, però, anche la polizia li aveva trovati a posto, perché, se ne avesse arrestato qualcuno, lo si sarebbe letto sui giornali, no? Sweeney l’assicurò di sì, e lei continuò dicendo che erano tutti cari ragazzi, proprio cari, e ogni volta che l’avevano accompagnata a casa, l’avevano salutata al portone senza entrare. Dorothy era una brava ragazza.

Povera figliola, pensò Sweeney e si domandò se fosse morta vergine. Sperò vivamente di no, ma non lo disse a voce alta. È bello, pensava mentre la Haley continuava a chiacchierare, che una ragazza si conservi per il Bene, ma è un pessimo scherzo se il Male le piomba addosso prima del tempo, sotto forma di un coltello affilato. Anche il modello della «Statua che urla», la povera Bessie Wilson, non era stata risparmiata da quel Male.

Sweeney sentiva, senza motivi speciali, che Bessie gli sarebbe piaciuta, e quasi desiderava averla conosciuta. E, diavolo, gli piaceva Charlie Wilson, nonostante quel che gli aveva fatto. Un piccolo ometto eccitabile, simpatico, quando non andava tirando pugni nello stomaco altrui.

Decise di mantenere comunque la promessa fatta a Charlie e di spedire il telegramma alla Ganslen. Stava scrivendolo nella sua mente, quando si ricordò del luogo in cui si trovava e si rese conto che la Haley stava ancora parlando e che lui non l’aveva ascoltata. Le diede retta quanto bastava per essere certo di non aver perso nulla di importante e se ne andò, declinando un invito a cena.

Scese al Loop e trovò un ufficio telegrafico aperto. Sedette con la matita e un blocco di carta, e consumò due o tre fogli prima di compilare un testo, anche troppo concentrato. Lo rilesse, scoprì che mancavano alcuni punti importanti, e rinunciò all’impresa. Andò ai telefoni e si fece dare una linea di comunicazione diretta con Louisville. Per fortuna aveva buona memoria per i nomi e ricordava nome e cognome del direttore generale della Ganslen, col quale aveva parlato la prima volta. Lo ritrovò nell’elenco degli abbonati, entrò in cabina e pochi minuti dopo parlava con il direttore generale e direttore agli acquisti della Ganslen Art Company.

— È Sweeney — disse — del “Blade” di Chicago, signor Burke. Ho parlato con voi qualche giorno fa, a proposito di una statuetta della vostra ditta. Siete stato allora tanto gentile da dirmi chi ne era lo scultore.

— Sì, ricordo infatti.

— Per ricambiarvi il favore, vi dirò qualcosa che procurerà molti guadagni a voi e a Chapman Wilson. Vi chiedo solamente di tener segreto quanto vi dirò fino a domani pomeriggio, quando sul “Blade” apparirà tutta la storia pubblicata. Siete d’accordo?

— Mah… d’accordo su che cosa, precisamente, signor Sweeney?

— Semplicemente a non dire a nessuno tutto quello che io sto per raccontarvi, prima di domani pomeriggio. Voi potete far tesoro dell’informazione e mettervi al lavoro anche subito. E prepararvi a incassare.

— Questa è una notizia piacevole.

— Bene, la faccenda sta qui: voi avete venduto a Chicago due copie della «Statua che urla». Una l’ho comperata io e l’altra lo Squartatore. Avete sentito parlare dei delitti dello Squartatore, vero?

— Ma certo! Buon Dio! E voi dite…

— Sì. Domani il “Blade” pubblicherà una fotografia della «Statua che urla», quattro colonne in prima pagina, se non mi sbaglio, insieme con la storia. Probabile che si riesca a prendere lo Squartatore. Un amico o la sua governante o qualcuno avrà visto in casa sua la statuetta e telefonerà alla polizia: non può esserne stato in possesso per due mesi, senza che qualcuno gliel’abbia vista. Ma comunque finisca, che lui sia arrestato o no, è una faccenda che riempie tutto il paese. Voi sarete sommersi per settimane da ordinazioni di statuette. Io vi consiglierei di metterle in lavorazione immediatamente. Chiamate un turno di notte alla fabbrica, se riuscite a pescare qualcuno. E se fossi in voi, non venderei quelle cento copie che avete ancora in magazzino: le darei ai rivenditori come campioni per ricevere gli ordinativi. Soprattutto ai rivenditori di Chicago. Mandate qua uno dei vostri uomini stanotte stessa, con un baule di quelle figurine.

— Grazie, signor Sweeney. Io non so come esprimervi la mia riconoscenza per avermi dato quest’informazione…

— Aspettate — lo interruppe Sweeney — non ho finito. Vi prego di fare una cosa, però. Su tutte le statuette che fabbricherete e venderete d’ora in poi, mettete un marchio speciale, in un punto qualsiasi, così da distinguerle da quella dello Squartatore. Tenete il marchio segretissimo, in modo che egli non possa imitarlo, e quando la polizia arriverà da voi, rivelatelo solo a lei. Perché, quando sarà scoppiata la bomba, verranno di certo a trovarvi. Altrimenti salterebbero addosso a me, per aver fatto riempire di un fiume di statuette il mercato di Chicago, vi pare? Ma capiranno che in realtà facciamo loro un favore: se vi saranno molte statuette in arrivo, lo Squartatore conserverà la sua, mentre se sapesse che in tutta Chicago ce n’è soltanto un’altra oltre la sua, si affretterebbe a liberarsene. E non saprà del marchio che distinguerà le altre. Sentite, come marchio, fate una piccola tacca all’angolo destro anteriore della base, in modo che sembri casuale, se qualcuno la vedesse.